avv. Valeria Pullini
In un recente passato è stata trattata la questione del cd. “meat sounding”, ossia la promozione e vendita di prodotti alimentari vegetariani o vegani con denominazioni che richiamano termini provenienti dal settore della macelleria, gastronomia e pescheria.
Al di là di alcune speculazioni formulate sul punto, l’argomento veniva lasciato in sospeso in attesa di una sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue, chiamata a prendere posizione sull’argomento dietro apposita domanda di pronuncia pregiudiziale presentata dal Consiglio di Stato di Parigi.
Più precisamente, nell’anno 2023 venivano promossi avanti al predetto Consiglio di Stato francese alcuni ricorsi da parte di diverse associazioni di categoria, sia francesi che europee, volti ad ottenere l’annullamento, per contrasto con il diritto europeo, del Decreto francese n. 947/2022 il quale, prima della legge italiana n. 172/2023, aveva introdotto in Francia il divieto di impiegare denominazioni che facessero riferimento al settore della carne per designare prodotti alimentari vegetali.
A seguito di tali ricorsi, trattati congiuntamente dal ridetto Consiglio di Stato, ai fini del decidere quest’ultimo, sospeso il giudizio interno, sottoponeva alla Corte di Giustizia dell’Ue alcune questioni pregiudiziali vertenti sull’interpretazione del Reg. (UE) n. 1169/2011, in particolare degli articoli 7 (pratiche leali d’informazione), 17 (denominazione dell’alimento) e 38 (disposizioni nazionali) e dell’allegato VI, Parte A, punto 4 (indicazioni obbligatorie che devono accompagnare la denominazione dell’alimento).
Le questioni pregiudiziali presentate in tale occasione alla Corte erano quattro, sintetizzate come segue:
– con le prime due questioni il Consiglio di Stato di Parigi, in veste di giudice del rinvio, chiedeva, in sostanza, se gli articoli 7 e 17 nonché l’allegato VI, parte A, punto 4, del Reg. (UE) n. 1169/2011, devono essere interpretati nel senso che essi armonizzano espressamente, ai sensi dell’art. 38, parag. 1 di detto regolamento, la tutela dei consumatori contro il rischio di essere indotti in errore, in particolare dall’uso di denominazioni, diverse dalle denominazioni legali, composte da termini provenienti dal settore della macelleria, gastronomia e pescheria, atti a designare, commercializzare o promuovere prodotti alimentari contenenti proteine vegetali in luogo di proteine di origine animale, anche nella loro interezza, escludendo, pertanto, che uno Stato membro possa adottare misure nazionali che disciplinino o vietino l’uso di tali denominazioni;
– con la sua terza questione, il giudice del rinvio chiedeva, in sostanza, se, in caso di risposta affermativa alla prima o alla seconda questione, il suddetto art. 38, parag. 1 debba essere interpretato nel senso che l’armonizzazione espressa delle disposizioni oggetto di tali questioni osti a che uno Stato membro adotti una misura nazionale che, da un lato, preveda l’irrogazione di sanzioni amministrative in caso di inosservanza dei requisiti e dei divieti derivanti dalle disposizioni di tale regolamento e, dall’altro, determini i livelli di proteine vegetali al di sotto dei quali resterebbe autorizzato l’uso di denominazioni, diverse dalle denominazioni legali, costituite da termini provenienti dai settori della macelleria e degli insaccati per designare, commercializzare o promuovere prodotti alimentari contenenti proteine vegetali;
– con la quarta questione, il giudice del rinvio chiedeva alla Corte se, in caso invece di risposta negativa alla prima e alla seconda questione, le disposizioni degli articoli 9 (informazioni obbligatorie) e 17 del Reg. (UE) n. 1169/2011 autorizzino uno Stato membro:
- ad emanare una misura nazionale che determini i livelli di proteine vegetali al di sotto dei quali sia consentito l’uso di denominazioni, diverse dalle denominazioni legali, che designano prodotti alimentari di origine animale ai fini della designazione, commercializzazione o promozione di prodotti alimentari che contengono sostanze di origine vegetale;
- ad emanare una misura nazionale che vieti l’uso di determinate denominazioni consuetudinarie o descrittive, anche quando sono accompagnate da informazioni supplementari che garantiscano un’informazione leale al consumatore;
- ad adottare le misure di cui alle precedenti lettere a) e b) solo nei confronti dei prodotti fabbricati nel proprio territorio, senza, in tal caso, violare il principio di proporzionalità di tali misure.
La breve disamina del caso finiva qui, in attesa di conoscere la decisione della Corte di Giustizia, chiamata in estrema sintesi a pronunciarsi sulla legittimità o meno del cd. “meat sounding”.
In data 4 ottobre 2024 veniva pubblicata la sentenza della Corte di Giustizia, Seconda Sezione, nella causa C-438/23, che di seguito andremo ad esaminare.
Corte di Giustizia dell’Ue, II Sezione, sentenza del 4.10.2024 in causa C-438/23 [1]
Dopo avere proceduto all’inquadramento normativo della questione rappresentata, costituito dai fondamenti della legislazione alimentare europea, la Corte si è soffermata, in particolare, sul contenuto delle tre norme in premessa citate, nella specie gli artt. 7, 17, 38 e l’allegato VI, Parte A, punto 4 del Reg. (UE) n. 1169/2011 il quale, come noto, costituisce la normativa trasversale in tema di informazioni sugli alimenti ai consumatori.
In particolare, ai sensi dell’art. 17 di tale regolamento:
– la denominazione dell’alimento è la sua denominazione legale. Solo in assenza di un tale nome, il nome della merce è il suo nome comune/usuale. In mancanza di tale nome o in caso di mancato utilizzo, deve essere indicata una denominazione descrittiva;
– è consentito l’uso, nello Stato membro di commercializzazione, della denominazione del prodotto alimentare con il quale il prodotto è legalmente fabbricato e commercializzato nello Stato membro di produzione. Tuttavia, qualora tale denominazione non sia tale da consentire ai consumatori dello Stato membro di commercializzazione di conoscere la reale natura del prodotto alimentare e di distinguerlo dai prodotti alimentari con i quali potrebbe essere confuso, la denominazione del prodotto alimentare in questione è accompagnata da altre informazioni descrittive da inserire nelle sue vicinanze.
Con il riferimento all’art. 38, la Corte ricorda che:
– per quanto riguarda le materie espressamente armonizzate dal Reg. (UE) n. 1169/2011, gli Stati membri non possono adottare né mantenere in vigore misure nazionali se non lo consente il diritto dell’Unione. Tali misure nazionali non possono ostacolare la libera circolazione delle merci, in particolare dar luogo a discriminazioni nei confronti dei prodotti alimentari provenienti da altri Stati membri;
– per contro, gli Stati membri possono adottare disposizioni nazionali su materie non espressamente armonizzate dal Reg. 1169/2011, purché tali misure non abbiano l’effetto di vietare, ostacolare o limitare la libera circolazione delle merci conformi a tale regolamento.
L’allegato VI del predetto regolamento, al punto 4 della parte A, intitolata «Indicazioni obbligatorie che devono accompagnare la denominazione dell’alimento », prevede quanto segue:
«Nel caso di alimenti in cui un componente o un ingrediente, che i consumatori presumono sia normalmente utilizzato o naturalmente presente, è stato sostituito con un diverso componente o ingrediente, l’etichettatura reca — oltre all’elenco degli ingredienti — una chiara indicazione del componente o dell’ingrediente utilizzato per la sostituzione parziale o completa:
a) in prossimità della denominazione del prodotto; e
b) in caratteri la cui parte mediana (altezza della x) è pari ad almeno il 75% di quella utilizzata per la denominazione del prodotto.
La Corte fa notare che, per giurisprudenza della stessa (con ciò richiamando la propria sentenza del 1° dicembre 2022, LSI – Germania, causa C-595/21, EU:C:2022:949, punto 31), risulta che le disposizioni dell’art. 17 del regolamento in esame, nonché quelle dell’allegato VI, parte A, punto 4, integrano, con requisiti specifici in materia di etichettatura, quelle dell’articolo 7 del medesimo regolamento, al fine di tutelare il consumatore contro l’inganno causato da indicazioni errate.
Risposta della Corte alle prime due questioni pregiudiziali
Alla luce di quanto precede, in risposta alle prime due questioni pregiudiziali sopra sintetizzate, la Corte ha argomentato considerando il combinato disposto delle disposizioni dell’art. 7, paragg. 1, 2 e 4, dell’art. 9, parag. 1, lett. a), dell’art. 17, paragg. 1 e 5, e dell’allegato VI, parte A, punto 4, del Reg. (UE) n. 1169/2011, alla luce del quale è possibile affermare quanto segue.
In primo luogo, i prodotti alimentari devono recare una denominazione.
Poi, tale denominazione deve essere, come detto, una denominazione legale o, in mancanza di tale denominazione, una denominazione usuale o, in mancanza, una denominazione descrittiva.
Così come tutte le informazioni sugli alimenti destinate al consumatore, anche la denominazione dell’alimento deve essere precisa, chiara e facilmente comprensibile.
In particolare, essa non deve indurre in errore i consumatori, segnatamente per quanto riguarda le caratteristiche del prodotto alimentare di cui trattasi, quali la sua natura e composizione, nonché per quanto riguarda la sostituzione di ingredienti presenti in natura o di ingredienti ivi normalmente utilizzati con ingredienti diversi.
Tutti i suddetti requisiti devono essere rispettati nella commercializzazione e nella promozione di qualsiasi alimento.
Le denominazioni legali
Ora, per quanto riguarda le denominazioni legali, esse possono essere prescritte da disposizioni del diritto dell’Unione.
Così, ad esempio, l’art. 2, parag. 1, lett. f), del Reg. 1169/2011 rinvia all’allegato I del Reg. (CE) n. 853/2004 per quanto riguarda le definizioni delle nozioni di «carni», «carni separate meccanicamente», «preparazioni di carni», «prodotti della pesca» e «prodotti a base di carne».
Cosicché, poiché la nozione di «carne» è definita, al punto 1.1 dell’allegato I summenzionato, come «parti commestibili di animali», un prodotto alimentare che non contiene tali parti non può utilizzare la denominazione «carne», anche se essa è accompagnata da precisazioni relative alla sostituzione di componenti o ingredienti.
Di ciò è conferma la nota sentenza TofuTown della Corte di Giustizia del 14 giugno 2017 (in causa C-422/16, EU:C:2017:458), ove la Corte ha escluso che le denominazioni legali relative al latte e ai prodotti lattiero-caseari possano essere utilizzate per designare prodotti alimentari non derivati dalla secrezione mammaria, anche se tali denominazioni siano completate da informazioni esplicative o descrittive che indichino l’origine vegetale del prodotto in questione, a meno che non sia il diritto dell’Unione stesso a prevedere eccezioni.
Sul punto, le disposizioni del Reg. (UE) n. 1308/2013 (OCM Unica) definiscono con precisione i requisiti che i prodotti alimentari devono soddisfare per poter utilizzare la denominazione «latte» e le denominazioni specifiche dei prodotti lattiero-caseari.
Ed infatti, dal tenore letterale dell’art. 2, parag. 2, let. n), del Reg. (UE) n. 1169/2011 risulta che le denominazioni legali devono essere «prescritte» o «previste», vale a dire definite, da disposizioni del diritto dell’Unione o dal diritto di uno Stato membro, ai fini della designazione di un prodotto alimentare.
Pertanto, l’adozione di una denominazione legale, sia essa prevista dal diritto dell’Unione o dal diritto di uno Stato membro, consiste nell’associare un’espressione specifica a un prodotto alimentare altrettanto specifico.
Le denominazioni usuali e descrittive
Se la questione risulta chiara per quanto riguarda le denominazioni legali degli alimenti, non altrettanto può dirsi in relazione alle denominazioni usuali e descrittive.
Sul punto, la Corte di Giustizia ha rilevato come l’impugnato decreto francese n. 947/2022 (così come, qui si aggiunge, la già inapplicabile legge italiana n. 172/2023) non contenesse una «denominazione legale» ai sensi del Reg. (UE) n. 1169/2011, ma riguardasse piuttosto la questione di quali «denominazioni usuali» o «denominazioni descrittive» non possano essere utilizzate per designare prodotti alimentari costituite di o a base di proteine vegetali.
La Corte ha rilevato che l’art. 2, parag. 2, lettere o) e p), del Reg. (UE) n. 1169/2011 non prevede che gli Stati membri possano adottare misure nazionali che disciplinino le denominazioni usuali o le denominazioni descrittive di un determinato prodotto alimentare, contrariamente a quanto previsto da tale articolo 2 per quanto riguarda le denominazioni legali.
Dalle definizioni adottate dal legislatore europeo per tali denominazioni usuali e descrittive si rileva che la portata di tali denominazioni non può essere circoscritta, in modo generale e astratto, dalle autorità nazionali.
Ciò, in quanto una denominazione può essere considerata come una denominazione usuale di un prodotto alimentare se la lingua, l’uso, l’abitudine, la tradizione e la consuetudine attuali consentono di ritenere che i consumatori riconoscano a tale denominazione il potere di designare specificamente il prodotto al quale è associata.
Così come, per essere qualificata come denominazione descrittiva, tale denominazione deve permettere di comprendere quali siano le caratteristiche principali della merce così designata.
Pertanto, dall’art. 38, parag. 1 del regolamento in parola discende che, in mancanza di adozione di una denominazione legale da parte di uno Stato membro, tale Stato membro non può impedire, con un divieto generale e astratto, ai produttori di prodotti alimentari a base di proteine vegetali di adempiere il loro obbligo di indicare la denominazione di tali prodotti alimentari mediante l’uso di denominazioni usuali o di denominazioni descrittive.
Peraltro, al fine di evitare il rischio che l’uso di determinate denominazioni comuni o descrittive induca in errore i consumatori – per il fatto che essi non sono adeguatamente informati del fatto che, nei prodotti alimentari designati con tali denominazioni, le proteine animali sono state sostituite da proteine vegetali – soccorre il combinato disposto dell’art. 7, parag. 1, lett. d) e dell’allegato VI, parte A, punto 4, del Reg. n. 1169/2011, laddove viene espressamente disciplinata la sostituzione di componenti o ingredienti di prodotti alimentari con componenti o ingredienti diversi.
Il fatto che tali disposizioni si riferiscano a un componente o a un ingrediente non è sufficiente per considerarle inapplicabili qualora il componente o l’ingrediente sostituito sia l’unico componente o ingrediente di un alimento.
Sempre sul punto, la Corte ha rilevato che il fatto di indicare, nelle immediate vicinanze della denominazione (usuale o descrittiva) dell’alimento, informazioni relative alla sostituzione di un componente o di un ingrediente è sufficiente a tutelare il consumatore dal rischio di essere indotto in errore.
Tuttavia, ciò non significa che, qualora un’autorità nazionale ritenga che le modalità specifiche di vendita o di promozione di un alimento inducano in errore il consumatore, essa non possa agire nei confronti dell’OSA interessato, il quale, ai sensi dell’art. 8, paragg. 1 e 2, del Reg. n. 1169/2011, è sempre responsabile delle informazioni relative a tale alimento e deve garantire che tali informazioni siano presenti ed esatte.
Per tutto quanto sopra, in relazione alla prima e alla seconda questione, la Corte ha così statuito:
– “gli articoli 7 e 17 nonché l’allegato VI, parte A, punto 4, del regolamento n. 1169/2011, letti alla luce dell’articolo 2, paragrafo 2, lettere o) e p), e dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a) del medesimo regolamento, devono essere interpretati nel senso che essi armonizzano espressamente, ai sensi dell’articolo 38, paragrafo 1 di detto regolamento, la tutela dei consumatori contro il rischio di essere indotti in errore dall’uso di denominazioni, diverse dalle denominazioni legali, composte da termini provenienti dai settori della macelleria, della gastronomia e della pescheria per designare, commercializzare o promuovere prodotti alimentari contenenti proteine vegetali in luogo di proteine di origine animale, anche nella loro interezza, e, pertanto, ostano a che uno Stato membro adotti misure nazionali che disciplinino o vietino l’uso di tali denominazioni”.
Sulla terza questione pregiudiziale
Alla terza questione pregiudiziale, la Corte ha fornito compiuta risposta in quanto diretta conseguenza del responso affermativo dato alle prime due.
La terza questione, ad ogni modo, è stata scissa in due parti:
- nella prima parte si chiedeva se l’art. 38, parag. 1, del Reg. (UE) n. 1169/2011 debba essere interpretato nel senso che l’armonizzazione espressa delle disposizioni oggetto delle prime due questioni osti a che uno Stato membro adotti una misura nazionale che preveda l’irrogazione di sanzioni amministrative in caso di inosservanza dei requisiti e dei divieti derivanti dalle disposizioni di tale regolamento:
- nella seconda parte della medesima questione, si chiedeva se l’art. 38, parag. 1 predetto debba essere interpretato nel senso che l’armonizzazione espressa delle disposizioni oggetto delle prime due questioni osti a che uno Stato membro determini i livelli di proteine vegetali al di sotto dei quali resterebbe autorizzato l’uso di denominazioni, diverse dalle denominazioni legali, costituite da termini provenienti dai settori della macelleria e degli insaccati per designare, commercializzare o promuovere prodotti alimentari contenenti proteine vegetali.
Per quanto riguarda la prima parte della terza questione, la Corte ha ricordato che, ai sensi dell’art. 17, parag. 2, terzo comma, del Reg. (CE) n. 178/2002 (General Food Law), gli Stati membri devono stabilire norme relative alle misure e alle sanzioni applicabili in caso di violazione della normativa relativa ai prodotti alimentari; misure e sanzioni che devono essere effettive, proporzionate e dissuasive.
A tale proposito, deve essere chiaro che le disposizioni normative contenute nella General Food Law, relativa ai principi e ai requisiti della legislazione alimentare, sono applicabili giocoforza alle disposizioni del Reg. (UE) n. 1169/2011, il quale rientra a pieno titolo nell’ambito della legislazione alimentare e consente, a determinate condizioni, l’adozione di misure nazionali alla luce delle quali gli Stati membri sono tenuti a prevedere sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, applicabili in caso di violazione di tale regolamento o di tali misure.
Ne consegue che l’armonizzazione espressa operata dalle disposizioni menzionate nella prima e nella seconda questione non osta a che uno Stato membro infligga sanzioni amministrative in caso di inosservanza dei requisiti e dei divieti derivanti da tali disposizioni o da misure nazionali conformi a tali disposizioni.
Diversamente, per quanto riguarda la seconda parte della terza questione, la Corte ha rilevato come la fissazione di livelli massimi di proteine vegetali consentite, affinché i prodotti alimentari possano essere designati con determinate denominazioni comuni o descrittive del settore della macelleria o della gastronomia, equivale a disciplinare l’uso di tali denominazioni, senza adottare una denominazione legale.
Ma poiché le disposizioni oggetto della prima e della seconda questione armonizzano espressamente l’uso di tali denominazioni usuali e descrittive, uno Stato membro non può adottare una misura al riguardo senza compromettere l’uniformità del diritto dell’Unione.
La Corte, pertanto, ha risposto alla terza questione statuendo quanto segue:
– “l’articolo 38, paragrafo 1, del regolamento n. 1169/2011 deve essere interpretato nel senso che l’armonizzazione espressa contenuta nella risposta alla prima e alla seconda questione non osta a che uno Stato membro possa comminare sanzioni amministrative in caso di inosservanza dei requisiti e dei divieti derivanti dalle disposizioni di tale regolamento e dalle misure nazionali in linea con queste ultime.
– Per contro, tale armonizzazione esplicita osta a che uno Stato membro adotti una misura nazionale che determini i livelli di proteine vegetali al di sotto dei quali resterebbe autorizzato l’uso di denominazioni, diverse dalle denominazioni legali, costituite da termini provenienti dai settori della macelleria e della gastronomia per designare, commercializzare o promuovere prodotti alimentari contenenti proteine vegetali.
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Avendo risposto positivamente alle prime due questioni pregiudiziali, la Corte non si è soffermata sulla quarta questione, essendo essa stata sollevata solo in caso di risposta negativa alle prime due.
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In conclusione
Via libera, quindi, al meat sounding, ma limitatamente alle denominazioni usuali e/o descrittive degli alimenti, con esclusione, quindi, delle denominazioni legali, che non possono essere impiegate per designare prodotti alimentari diversi da quelli ad esse riferibili e corrispondenti, nemmeno nel caso in cui tali denominazioni siano completate da informazioni esplicative o descrittive che indichino caratteristiche diverse del prodotto in questione, a meno che – come detto – non sia il diritto dell’Unione stesso a prevedere eccezioni.
La possibilità di utilizzare denominazioni, diverse dalle denominazioni legali, composte da termini provenienti dai settori della macelleria, della gastronomia e della pescheria per designare, commercializzare o promuovere prodotti alimentari contenenti proteine vegetali in luogo di proteine di origine animale non impedisce, comunque, ad uno Stato membro di adottare sanzioni amministrative in caso di mancato rispetto degli obblighi e dei divieti derivanti dalle disposizioni del Reg. (UE) n. 1169/2011, nonché delle misure nazionali con esso coerenti.
Ciò comporta, pertanto, la necessità di una valutazione caso per caso della correttezza e non ingannevolezza delle informazioni utilizzate non solo in etichettatura, ma anche a mezzo della pubblicità e della presentazione dei prodotti alimentari.
[1]La sentenza completa è consultabile in: