PUBBLICITA’ DEGLI INTEGRATORI ALIMENTARI: BREVI NOTE ALL’INGIUNZIONE DELL’IAP N. 17/24 DEL 19 GIUGNO 2024

avv. Valeria Pullini

Nell’ambito della normativa europea, conoscere la differenza tra integratori alimentari e farmaci è di fondamentale importanza per comprendere le implicazioni normative e regolamentari che riguardano questi due tipi di prodotti.

Prima di soffermarci sull’ennesimo caso di ingannevolezza del messaggio pubblicitario relativo ad un integratore alimentare, si ritiene opportuno fornire una panoramica sul contesto normativo in cui si inseriscono gli integratori alimentari e i farmaci, evidenziando l’importanza di distinguere tra tali due diverse categorie di prodotti e comprendere le implicazioni che tale distinzione comporta a livello normativo e di commercializzazione.

 

Definizioni e classificazioni

Molto brevemente, nella normativa europea i farmaci sono definiti come sostanze utilizzate per prevenire, diagnosticare o trattare malattie; inoltre sono soggetti a rigorosi test clinici e ad autorizzazione prima di essere commercializzati.

La regolamentazione dei medicinali trova armonizzazione in ambito Ue sotto un insieme comune di norme legislative [le quali coprono anche lo Spazio economico europeo (SEE)], primi tra tutti la Direttiva a 2001/83/CE, recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano, e il Regolamento (CE) n. 726/2004, che istituisce procedure comunitarie per l’autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario, e che istituisce l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA).

Le autorità coinvolte a livello unionale nel settore del farmaco sono, oltre all’EMA, la Commissione europea e le autorità nazionali competenti (per l’Italia, il Ministero della salute).

Come si rileva dal sito dell’EMA stessa[1], i compiti principali dell’Agenzia consistono nell’autorizzare e monitorare i medicinali nell’Ue.

Le imprese vi si rivolgono per richiedere un’autorizzazione all’immissione in commercio unica, che viene successivamente rilasciata dalla Commissione europea.

Qualora concessa, essa consente l’immissione in commercio del medicinale interessato nell’intero territorio dell’Ue e del SEE.

Diversamente, gli integratori alimentari in Ue trovano disciplina normativa nella Direttiva 2002/46/CE (recepita in Italia con il D. Lgs. 169/2004).

Tale direttiva definisce gli «integratori alimentari» come i prodotti alimentari (secondo la definizione di alimenti offerta dall’art. 2, Reg. CE n. 178/2002) destinati ad integrare la dieta normale e che costituiscono una fonte concentrata di sostanze nutritive (vitamine e/o minerali) o di altre sostanze aventi un effetto nutritivo o fisiologico (es. sostanze vegetali), sia monocomposti che pluricomposti, in forme di dosaggio, vale a dire in forme di commercializzazione quali capsule, pastiglie, compresse, pillole e simili, polveri in bustina, liquidi contenuti in fiale, flaconi a contagocce e altre forme simili, di liquidi e polveri destinati ad essere assunti in piccoli quantitativi unitari.

Per quanto sopra, le principali differenze tra i farmaci e gli integratori alimentari risiedono nella regolamentazione a livello normativo e nel processo di autorizzazione.

I farmaci sono soggetti ad un rigoroso processo di valutazione della sicurezza prima di essere autorizzati per la commercializzazione, mentre gli integratori alimentari non subiscono lo stesso livello di controllo.

Gli integratori, infatti,  sono disciplinati come alimenti, non come farmaci, e non sono soggetti ad alcun iter di autorizzazione, bensì solo alla procedura di notifica (della relativa etichettatura, non del prodotto in sé) alla competente autorità prima o contestualmente alla relativa immissione in commercio.

Ancorché sia importante sottolineare che, nonostante gli sforzi normativi, l’uso di integratori alimentari può comportare rischi per la salute e può interagire con farmaci e altre condizioni mediche, tali prodotti, in quanto alimenti, non possono essere presentati come soluzione terapeutica o preventiva per alcuna malattia[2], a differenza dei farmaci che sono specificamente autorizzati per il trattamento di condizioni mediche specifiche.

Quanto sopra, fatte salve le deroghe previste dalla legislazione dell’Unione in materia di alimenti destinati a un particolare utilizzo nutrizionale (cfr. art. 7, Reg. UE n. 1169/2011, relativo alle informazioni sugli alimenti ai consumatori).

Sul punto, ci si riferisce in particolare all’art. 14 del Reg. (CE) n. 1924/2006 (relativo alle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sugli alimenti), che riguarda le indicazioni sulla salute relative alla riduzione dei rischi di malattia (e allo sviluppo e alla salute dei bambini).

 

 Breve inciso sul campo di applicazione dell’art. 14 del Reg. (CE) n. 1924/2006

In deroga al divieto di attribuire agli alimenti proprietà atte a prevenire, trattare o guarire una malattia umana, di cui al sopra citato art. 7, parag. 3, del Reg. (UE) n. 1169/2011, l’art. 14 del Reg. (CE) n. 1924/2006 – cd. regolamento claims – consente di fornire, in relazione a determinati alimenti, indicazioni sulla riduzione dei rischi di malattia, a condizione che ne sia stato autorizzato, secondo la procedura di cui agli artt. 15, 16, 17 e 19 del regolamento medesimo, l’inserimento in apposito elenco europeo, unitamente a tutte le condizioni necessarie per il relativo impiego.

Pertanto, al fine di poter impiegare questo tipo di indicazioni sugli alimenti, occorre avere prima superato positivamente un lungo iter di autorizzazione, che vede coinvolti, in particolare ai fini della valutazione della relativa fondatezza scientifica, la competente autorità della nazione del richiedente, l’EFSA e la Commissione europea.

Peraltro, oltre ai suddetti requisiti, per le indicazioni sulla riduzione dei rischi di malattia l’etichettatura, o in mancanza di etichettatura, la presentazione o pubblicità deve obbligatoriamente recare anche una dicitura indicante che la malattia cui l’indicazione fa riferimento è dovuta a molteplici fattori di rischio e che l’intervento su uno di questi fattori può non avere un effetto benefico.

Si deve precisare, ad ogni modo, che vantare un effetto di riduzione del rischio di una malattia è cosa ben diversa dall’attribuire ad un prodotto la capacità di curare, trattare o prevenire una patologia umana.

Infatti, per «indicazioni relative alla riduzione di un rischio di malattia» si intende qualunque indicazione sulla salute che affermi, suggerisca o sottintenda che il consumo di una categoria di alimenti, di un alimento o di uno dei suoi componenti riduce significativamente un fattore di rischio di sviluppo di una malattia umana (v. art. 2, Reg. CE n. 1924/2006).

L’alimento che vanta un’indicazione di questo tipo sarà solo in grado, nella migliore delle ipotesi, di ridurre un fattore di rischio di sviluppo di una patologia, ma mai di ridurre o curare la patologia stessa.

In altri termini, vi è sempre un elemento intermedio che insiste tra l’assunzione dell’alimento e l’effetto sullo sviluppo della malattia, costituito dal “fattore di rischio”.

Un esempio di claim sulla salute autorizzato ai sensi dell’art. 14 del regolamento in parola potrà chiarire: “È stato dimostrato che gli steroli vegetali riducono il colesterolo nel sangue. L’ipercolesterolemia costituisce un fattore di rischio per lo sviluppo di cardiopatie coronariche”.

Da tale esempio risulta chiaro come l’assunzione degli steroli vegetali non prevenga né tantomeno curi le cardiopatie coronariche, ma sia in grado piuttosto di ridurre il colesterolo ematico, il quale ultimo è il fattore di rischio (elemento intermedio) per lo sviluppo di tali patologie.

Nulla a che vedere, quindi, con le proprietà e gli effetti attribuibili ai medicinali per uso umano.

Definite, sotto il profilo normativo, le – restrittive e condizionate – ipotesi in cui sia possibile per un alimento vantare proprietà atte a ridurre un fattore di rischio di malattia, è ora possibile inquadrare con maggiore cognizione di causa il casus oggetto del presente elaborato.

 

Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP), Comitato di Controllo – Ingiunzione n. 17/24 del 19 giugno 2024[3]

Anzitutto, va rilevato che l’IAP (Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria) è l’organismo preposto

alla fissazione dei parametri per una comunicazione commerciale “onesta, veritiera e corretta” a tutela dei consumatori e della leale concorrenza tra le imprese.

Diversamente dall’AGCM, che è un’autorità amministrativa indipendente, l’IAP ha natura privata e agisce basandosi sul Codice di Autodisciplina Pubblicitaria (CAP), un regolamento istituito dallo stesso IAP, vincolante solo per coloro che vi hanno aderito, ossia i principali operatori del settore.

Contrariamente all’AGCM, lo IAP può decidere di far interrompere la trasmissione di una pubblicità non conforme a quanto stabilito dal CAP, senza però avere la facoltà di comminare sanzioni ai responsabili della comunicazione commerciale ingannevole.

Il recente caso in esame, sottoposto al vaglio dell’IAP, ha riguardato alcuni messaggi pubblicitari sulle (asserite) proprietà di un integratore alimentare a base di sostanze vegetali, presentato in due diversi formati e riconducibile alla medesima azienda.

In particolare, i claims “incriminati”, riferiti alla composizione dell’integratore in parola, erano (con evidenziazione qui aggiunta) i seguenti:

  • sconfiggi il colesterolo ‘cattivo’”; “combattendo i danni cellulari”; “migliora la funzione della arterie”; “lotta contro l’infiammazione cronica”; “riducendo l’infiammazione cutanea”,
  • accompagnati in alcuni passaggi dalle condizioni di impiego dell’integratore stesso, ove si faceva riferimento a specifiche situazioni patologiche, quali l’ipertrofia prostatica benigna, nonché a situazioni di infiammazione cronica, quale l’artrite.

Tali indicazioni sono state ritenute dall’IAP ingannevoli, in quanto manifestamente in contrasto con le disposizioni dell’art. 23bis del CAP[4], dedicato agli integratori alimentari e ai prodotti dietetici, il quale – per quanto qui interessa – così stabilisce:

La comunicazione commerciale relativa agli integratori alimentari e ai prodotti dietetici non deve vantare proprietà non conformi alle particolari caratteristiche dei prodotti, ovvero proprietà che non siano realmente possedute dai prodotti stessi.

Inoltre detta comunicazione commerciale deve essere realizzata in modo da non indurre i consumatori in errori nutrizionali e deve evitare richiami a raccomandazioni o attestazioni di tipo medico.

(…)

Per quanto attiene, in particolare, alla comunicazione commerciale relativa agli integratori alimentari proposti per il controllo o la riduzione del peso e di altre tipologie specifiche di integratori, valgono le norme contenute nell’apposito Regolamento, che costituisce parte integrante del presente Codice”.

La motivazione che ha condotto l’IAP al giudizio di ingannevolezza risiede sull’evidente fatto di avere impropriamente attribuito all’integratore proprietà ed effetti di natura terapeutica, che non sono ammissibili ed esulano dal campo di azione di questi prodotti i quali, come ben noto, possono unicamente svolgere un’azione di mantenimento dei normali processi fisiologici, senza poter intervenire in situazioni alterate o patologiche.

Il Presidente del Comitato di Controllo ha aggiunto che “l’ingannevolezza del messaggio deve essere valutata non solamente con riguardo al suo contenuto, ma anche in considerazione del pubblico cui esso viene destinato, costituito da consumatori particolarmente sensibili nei confronti di annunci che promettono il sicuro ottenimento di risultati particolarmente ambiti, e per questo motivo portati ad una decodifica più allettante ed illusoria delle promesse pubblicitarie, con la conseguente amplificazione dei profili di decettività”.

L’IAP, pertanto, ancorché indirettamente rimanda ad uno dei principi dominanti l’intera legislazione – europea e nazionale – in materia alimentare, ossia il principio del leale esercizio del commercio, che si esplica anche a mezzo della prevenzione di pratiche commerciali idonee ad indurre in errore e pone le regole volte a creare, a beneficio del consumatore, le condizioni per poter operare scelte adeguate e consapevoli nel proprio interesse non solo economico, ma anche sanitario, ambientale, sociale,    etico.

Consumatore che, nello specifico contesto, è un soggetto particolarmente sensibile.

Ed infatti, nel concetto di consumatore medio – il quale costituisce il parametro della lealtà delle pratiche d’informazione – vanno considerati anche quei soggetti che, per le loro caratteristiche, risultano particolarmente vulnerabili alle pratiche commerciali sleali.

Pertanto, ove una pratica commerciale sia specificatamente diretta ad un determinato gruppo di consumatori, particolarmente vulnerabili a causa dello stato psichico o fisico o relativo all’età nel quale essi si trovano, l’impatto della pratica commerciale deve essere valutato nell’ottica del membro medio di quel gruppo.

E’ chiaro che, a fronte della decettività di messaggi pubblicitari simili a quelli sopra considerati, le autorità competenti ad intervenire sono varie ed il fatto che in questo specifico caso sia intervenuto solo l’IAP non significa che la materia sia di sua esclusiva competenza.

Anzi.

 

Le autorità competenti in materia di violazione delle disposizioni del Reg. (CE) n. 1924/2006 e di violazione delle norme in tema di integratori alimentari

Il D. Lgs. 27/2017, recante la disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni di cui al regolamento  (CE)  n. 1924/2006, individua all’art. 2 il Ministero della salute, le Regioni, le Province autonome di Trento e Bolzano e le ASL quali autorità competenti ai fini dell’applicazione del decreto medesimo.

All’articolo 1, relativo al campo d’applicazione, tuttavia, il decreto fa salvo quanto previsto dal decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145 e dal decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (codice del consumo), relativamente alle attribuzioni dell’AGCM.

Pertanto, l’ASL risulta competente, ai sensi dell’art. 10 del D. Lgs. 27/2017, nelle ipotesi in cui l’OSA impieghi in etichetta, nella presentazione e nella pubblicità, indicazioni sulla salute non incluse negli elenchi delle indicazioni autorizzate di cui agli articoli 13 e 14 del Reg. (CE) n. 1924/2006; condotta per la quale è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da euro 6.000 a euro 24.000.

Ciò nondimeno, nonostante la sussistenza, ormai pacifica, di un rapporto di specialità tra il Reg. (CE) n. 1924/2006 (lex specialis, con prevalenza di applicazione[5]) e la normativa generale in materia di pratiche commerciali sleali (Direttiva 2005/29/CE), non può escludersi a priori la competenza dell’AGCM anche in un caso simile, con conseguenze sanzionatorie di ben diversa portata sotto il profilo quantitativo.

Sul punto, la Commissione europea ha precisato, nella propria Comunicazione 2021/C 526/01, che  l’applicazione della Direttiva 2005/29/CE (competenza dell’AGCM) non è di per sé esclusa solo perché esistono altre normative dell’UE che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali.

Nell’affermare ciò, ricorda come nella causa Abcur (sentenza del 16 luglio 2015, Abcur, cause riunite C-544/13 e C-545/13) la Corte di Giustizia abbia osservato quanto segue:

«(…) il giudice di rinvio chiede, sostanzialmente, se, nell’ipotesi in cui medicinali ad uso umano […] ricadessero nella sfera di applicazione della direttiva 2001/83, pratiche pubblicitarie relative ai medicinali stessi […] possano parimenti ricadere nell’ambito della direttiva 2005/29. (…)

Come già rilevato dalla Corte, la direttiva 2005/29 è caratterizzata da una sfera di applicazione sostanziale particolarmente ampia che si estende a qualsiasi pratica commerciale che presenti un nesso diretto con la promozione, la vendita o la fornitura di un prodotto ai consumatori (…).

(…) si deve rispondere (…) dichiarando che, anche nell’ipotesi in cui medicinali ad uso umano, come quelli oggetto dei procedimenti principali, ricadessero nella sfera di applicazione della direttiva 2001/83, pratiche pubblicitarie relative a tali medicinali (…) sarebbero parimenti suscettibili di ricadere nella sfera della direttiva 2005/29, sempreché ricorrano le condizioni ai fini dell’applicazione della direttiva medesima».

Nello specifico caso, inoltre, si verte in materia di integratori alimentari, in relazione ai quali il D. Lgs. 169/2004, di recepimento della Direttiva 2002/46/CE, all’art. 6, conformemente al corrispondente disposto della Direttiva, stabilisce che l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità non attribuiscono agli integratori alimentari proprietà terapeutiche né capacità di prevenzione o cura delle malattie umane né fanno altrimenti riferimento a simili proprietà.

Per la violazione di tale norma, l’art. 15 del citato decreto prevede, salvo che il fatto costituisca reato, l’applicazione di una sanzione amministrativa da euro 2.000 a euro 10.000.

E la competenza è delle Regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, competenti per territorio.

Si ritiene sia quest’ultima la norma applicabile ad un caso simile a quello qui trattato, qualora accertato da un’autorità diversa dall’IAP, considerato che i claims utilizzati nella fattispecie appaiono difficilmente riconducibili ad indicazioni sulla salute, non autorizzate ai sensi dell’art. 14 del Reg. (CE) n. 1924/2006, relative alla riduzione di un fattore di rischio di malattia, quanto piuttosto ad indicazioni di carattere terapeutico vietate per tutti gli alimenti e, così, anche per gli integratori alimentari.

[1] Cfr. https://european-union.europa.eu/institutions-law-budget/institutions-and-bodies/search-all-eu-institutions-and-bodies/european-medicines-agency-ema_it

[2] V. art. 6 della Direttiva 2002/46/CE e art. 6 del D. Lgs. 169/2004

[3] V. https://www.iap.it/decisioni/mangivist-prost-e-mangivist-bustine/

[4] V. https://www.iap.it/codice-e-altre-fonti/il-codice/

[5] Si veda sul punto la sentenza della Corte di Giustizia del 10.9.2020 in causa C-363/19 (Konsumentombudsmannen c. Mezian AB)

 

Articoli correlati

Inizia a scrivere il termine ricerca qua sopra e premi invio per iniziare la ricerca. Premi ESC per annullare.

Torna in alto