avv. Valeria Pullini
In tanti ricorderanno la vicenda della contaminazione da ossido di etilene (ETO) di alcuni alimenti (tra cui la farina di semi di carrube), che ha tristemente interessato gran parte del mercato dell’Ue nel biennio 2020-2022.
Come noto, l’ETO è una sostanza vietata nell’Ue, ma utilizzata in ambito extra-Ue per trattamenti di sterilizzazione su materie prime di origine vegetale.
Tale sostanza, precedentemente utilizzata anche come pesticida, non è più autorizzata in Ue dall’entrata in vigore del regolamento (CE) n. 1107/2009, in quanto classificata come mutagena, cancerogena e tossica per la riproduzione dall’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA).
In base al disposto dell’art. 20 del regolamento (CE) n. 396/2005 (il quale stabilisce i livelli massimi di residui di antiparassitari nei o sui prodotti alimentari e mangimi di origine vegetale e animale), un alimento – nel caso qui in esame, la farina di semi di carrube – va considerato contaminato qualora il suo contenuto di ossido di etilene sia superiore a 0,1 mg/kg.
Cosicché, il superamento – anche di poco – di tale LOQ, rilevato in alcune materie prime importate nell’Unione da Paesi terzi, ha dato necessariamente ed obbligatoriamente avvio al sistema di allarme rapido vigente in Ue, parte integrante di un procedimento di allerta europeo denominato RASFF – Rapid Alert System for Food and Feed (Sistema di allerta rapido per alimenti e mangimi).
Ebbene, da tale pagina nera nella storia degli scambi commerciali tra imprese nel territorio europeo, molte delle quali coinvolte loro malgrado, è emersa una nota che potremmo definire positiva nella sino ad ora rigidissima gestione nazionale del rischio nell’ambito del predetto sistema di allerta.
Tale risultato viene tratto in virtù di un procedimento giudiziario avanti al TAR per la Lombardia, Brescia, Autorità giudiziaria amministrativa adita a mezzo ricorso da un’impresa italiana avverso l’Agenzia di Tutela della Salute (ATS) di Bergamo, nonché nei confronti del Ministero della Salute.
In particolare, tale impresa si rivolgeva al TAR territorialmente competente ai fini dell’annullamento di alcuni provvedimenti precedentemente adottati nei suoi confronti dall’ATS locale, tra i quali, per quanto qui interessa:
- una comunicazione, impugnata nella parte in cui essa prevedeva, con riferimento ai prodotti contenenti l’additivo E410 (farina di semi di carrube), che «se l’additivo E410 contiene più di 0,1mg/kg di ossido di etilene si ritira e richiama il prodotto finito” e che “tale prescrizione deve essere applicata anche ai costituenti, qualora l’additivo sia il prodotto di miscele di diverse materie prime, parte delle quali non conformi».
Si premette sin d’ora che il ricorso veniva alla fine respinto dal TAR, la cui pronuncia è stata recentemente confermata dal Consiglio di Stato in sede di impugnazione da parte dell’impresa interessata.
Quindi, non è l’epilogo giudiziale a costituire l’elemento di positività sopra anticipato, quanto piuttosto ciò che emerge dalle motivazioni che il TAR ha formulato nella propria sentenza, di cui a breve si procederà ad una trattazione più nel dettaglio.
Il fatto storico
L’impresa ricorrente è un operatore cd. intermedio, che si occupa della preparazione di semilavorati alimentari per l’industria e/o le imprese artigiane, nella specie miscele per la produzione di gelati e confetture, alimenti – questi ultimi – destinati al consumatore finale.
Tra le materie prime utilizzate per la preparazione di tali miscele rientra la farina di semi di carrube (additivo E410 con funzione stabilizzante).
A partire dal mese di giugno 2021, l’ossido di etilene è stato rinvenuto anche nella farina di semi di carrube e ciò ha dato avvio al procedimento di allerta sopra cennato, con inserimento e validazione all’interno del RASFF e con determinazione dello status di “alimento non sicuro per il consumatore” dell’alimento interessato, con conseguente suo ritiro e richiamo dal mercato, senza possibilità di deroga da parte delle Autorità nazionali.
Gli operatori della locale ATS effettuavano, così, gli accertamenti del caso presso lo stabilimento dell’impresa de qua la quale, affermando di essere a conoscenza della non conformità di un lotto di farina di semi di carrube di origine extra-Ue, dichiarava che tale farina era stata miscelata con un’altra farina di provenienza italiana per dare origine al prodotto oggetto di segnalazione.
Poco dopo, il Ministero della Salute specificava che, stante l’elevata pericolosità del prodotto, tutti gli alimenti ottenuti miscelando la farina di semi di carrube contaminata dovessero essere ritirati dal mercato e alla luce di ciò la locale ATS comunicava all’impresa la necessità di ritirare in via precauzionale tutti i prodotti realizzati con la farina di semi di carrube contaminata, a prescindere dal fatto che, a seguito della loro diluizione con altre farine di diversa origine, la concentrazione dell’additivo E410 fosse inferiore alla soglia di allerta.
Con un ulteriore intervento, il Ministero della Salute confermava la necessità di ritirare dal mercato non solo la materia prima contaminata ma anche i prodotti finiti in cui tale materia prima era stata impiegata, aggiungendo tuttavia che stava predisponendo una richiesta di parere alla Commissione europea per autorizzare l’utilizzo dei lotti risultati non contaminati a seguito di miscelazione della farina contaminata con altre conformi ed il cui impiego era stato precauzionalmente vietato in precedenza.
L’amministrazione procedente, in conformità al parere emesso dalla Commissione europea, riteneva che la proposta di libera circolazione dei lotti risultati conformi, nonostante fossero stati ottenuti utilizzando anche la farina contaminata, fosse in linea con il parere del comitato dei coordinatori della crisi (organismo istituito dalla Commissione europea), con ciò ribadendo, al contempo, la necessità di ritirare/richiamare dal mercato tutti i lotti non conformi e i prodotti finiti realizzati con essi.
In particolare, nei confronti dell’impresa in esame, l’ATS territoriale inviava una comunicazione a mezzo della quale disponeva, con riferimento ai prodotti contenenti farina di semi di carrube, che se in tale additivo l’ossido di etilene fosse stato presente in quantità superiore a 0,1mg/kg, sia il prodotto finito sia i relativi costituenti avrebbero dovuto essere ritirati e richiamati dal mercato, anche qualora l’additivo stesso fosse il risultato di miscele di diverse materie prime, parte delle quali non conformi.
L’impresa interessata impugnava tale provvedimento davanti al TAR territoriale, evidenziando l’irragionevolezza della disposizione di ritiro dal mercato non solo dei prodotti non conformi ma anche di quelli derivanti dalla relativa lavorazione, in quanto asseritamente non pericolosi per la salute umana.
Si sviluppava, così, il procedimento avanti al predetto Giudice amministrativo il quale, nella valutazione di merito della vicenda, procedeva in primis ad una disamina riepilogativa del funzionamento del sistema di allerta rapido europeo, che di seguito si ritiene utile proporre.
Il procedimento avanti al TAR Brescia – il sistema europeo di allarme rapido degli alimenti e il RASFF
La disciplina della materia trova fondamento nel regolamento (CE) n. 178/2002, cd. General Food Law, che pone i requisiti ed i principi generali della legislazione alimentare e la cui ratio è costituita dall’assicurare un livello elevato di tutela della salute umana e degli interessi dei consumatori in relazione agli alimenti, stabilendo in funzione di ciò i principi comuni, le competenze e le procedure organizzative volte a sostenere l’attività decisionale nel campo della sicurezza degli alimenti e dei mangimi.
Tali procedure si fondano sulla cd. “analisi del rischio”, che rappresenta un procedimento complesso articolato in tre fasi interconnesse: valutazione, gestione e comunicazione del rischio.
Nell’ambito della gestione del rischio particolare importanza assume il principio di precauzione, disciplinato all’art. 7, parag. 1 del detto regolamento, nel quale è stabilito che:
“qualora, in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d’incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio”.
Tale principio va applicato nell’ipotesi in cui venga individuata, in circostanze specifiche, a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, la possibilità che insorgano effetti dannosi per la salute, anche se l’incertezza scientifica non consente una valutazione completa del rischio.
L’incertezza scientifica costituisce, pertanto, il requisito fondamentale per poter fare ricorso al principio di precauzione.
Tale incertezza può essere il frutto di diverse valutazioni sui dati esistenti, come pure della mancanza di dati o della relativa insufficienza.
In tali casi, spetta alle istituzioni ed alle autorità competenti decidere se sia opportuno attendere i risultati di una ricerca scientifica più approfondita oppure se sia necessario agire sulla base delle conoscenze scientifiche disponibili, anche se incomplete.
A take proposito, “quando sussistono incertezze o un ragionevole dubbio riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi; l’attuazione del principio di precauzione comporta dunque che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche” (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655), perché esso ha come presupposto “la mera esistenza di un rischio potenziale per la salute e per l’ambiente e non richiede l’esistenza di evidenze scientifiche consolidate sulla correlazione tra la causa, oggetto di divieto o limitazione, e gli effetti negativi che ci si prefigge di eliminare o ridurre” (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 6 febbraio 2015, n. 605).
Tuttavia, il principio di precauzione va applicato tenendo in necessaria considerazione il principio di proporzionalità, in base al quale possono essere adottate solo misure provvisorie di gestione del rischio, necessarie a garantire il livello elevato di tutela della salute che l’UE persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio.
Le misure adottate, pertanto, devono essere proporzionate e prevedere le sole restrizioni al commercio che siano necessarie per raggiungere il livello elevato di tutela della salute.
In tale ambito, per determinare se un alimento possa considerarsi dannoso per la salute umana occorre fare riferimento ancora una volta al regolamento (CE) n. 178/2002, in particolare all’art. 14, prendendo in considerazione:
“a) non soltanto i probabili effetti immediati e/o a breve termine, e/o a lungo termine dell’alimento sulla salute di una persona che lo consuma, ma anche su quella dei discendenti;
b) i probabili effetti tossici cumulativi di un alimento;
c) la particolare sensibilità, sotto il profilo della salute, di una specifica categoria di consumatori, nel caso in cui l’alimento sia destinato ad essa”,
con la precisazione che “se un alimento a rischio fa parte di una partita, lotto o consegna di alimenti della stessa classe o descrizione, si presume che tutti gli alimenti contenuti in quella partita, lotto o consegna siano a rischio a meno che, a seguito di una valutazione approfondita, risulti infondato ritenere che il resto della partita, lotto o consegna sia a rischio”.
Per quanto attiene alle concrete modalità di gestione di una di tali situazioni di emergenza, il predetto regolamento, all’art. 50, istituisce un “sistema di allarme rapido” (RASFF) gestito dalla Commissione, attraverso cui avviene la notificazione di un rischio diretto o indiretto per la salute umana dovuto ad alimenti o mangimi.
La procedura è analiticamente disciplinata dal regolamento (UE) n. 1715/2019.
Si tratta di una rete a cui partecipano, attraverso un “punto di contatto”, gli Stati membri dell’Ue, la Commissione e l’EFSA, valevole allo scambio di informazioni e ordini di ritiro/richiamo dei prodotti pericolosi o potenzialmente tali.
Qualora, quindi, un membro di tale rete disponga di informazioni relative all’esistenza di un grave rischio, diretto o indiretto, per la salute umana dovuto ad alimenti o mangimi, le trasmette immediatamente alla Commissione per il tramite del sistema di allarme rapido, la quale le inoltrerà, a sua volta, agli altri membri che adotteranno le misure emergenziali del caso e le comunicheranno alla Commissione.
Nell’ordinamento nazionale italiano l’inserimento di un procedimento di allerta nel sistema europeo RASFF avviene ad opera dell’Autorità sanitaria territorialmente competente (ATS o ASL) ed è validato sia dal punto di contatto regionale sia da quello nazionale (Ministero della Salute), il quale notifica l’allerta agli altri Stati membri coinvolti, definendone anche la gravità.
Con specifico riferimento all’allerta che ha coinvolto gli alimenti contaminati da ETO, il regolamento (CE) n. 369/2005 citato in premessa prevede, all’art.18, che “a partire dal momento in cui sono immessi sul mercato come alimenti o mangimi o somministrati ad animali, i prodotti di cui all’allegato I non devono contenere alcun residuo di antiparassitari il cui tenore superi” gli LMR specificamente previsti nei relativi allegati I (in cui, per quanto riguarda l’ETO, è fissato un LMR di 0,1 mg/kg per le carrube), II e III.
Al successivo art. 20 è, inoltre, precisato che nel caso di “prodotti alimentari o mangimi trasformati e/o compositi per i quali non siano stati fissati LMR negli allegati II e III, si applicano gli LMR stabiliti all’articolo 18, paragrafo 1, per il prodotto pertinente di cui all’allegato I (nello specifico caso, le carrube), tenendo conto delle variazioni del tenore di residui di antiparassitari, conseguenti alla trasformazione e/o alla miscela”.
Ma attenzione: in base all’art. 19 del medesimo regolamento “è vietato trasformare e/o miscelare a fini di diluizione con i medesimi o con altri prodotti, i prodotti di cui all’allegato I che non siano conformi all’articolo 18, paragrafo 1, o all’articolo 20 allo scopo di immetterli in commercio come alimenti o mangimi o somministrarli ad animali”.
Per quanto sopra, nel caso in esame, il TAR ha ritenuto condivisibile e ragionevole la decisione adottata dall’ATS territoriale nei confronti dell’impresa ricorrente, in quanto frutto di un bilanciamento tra il sopra riportato art. 19 del reg. (CE) n. 309/2005 e l’art. 7, comma 2 del reg. (CE) n. 178/2002, alla luce del quale le misure preventive adottate “sono proporzionate e prevedono le sole restrizioni al commercio che siano necessarie per raggiungere il livello elevato di tutela della salute perseguito nella Comunità, tenendo conto della realizzabilità tecnica ed economica e di altri aspetti, se pertinenti”.
Ed è esattamente su questo punto che si inserisce il passaggio motivazionale della sentenza del TAR che, ad avviso della scrivente, costituisce un’apertura o, più propriamente, un elemento di maggiore elasticità nella sinora rigidissima modalità di gestione del rischio che nell’ambito delle allerte alimentari ha caratterizzato l’operatività della Autorità sanitarie competenti in sede nazionale.
Il concreto bilanciamento tra il principio di precauzione e il principio di proporzionalità
Proprio in virtù della gestione del rischio fondata sul combinato disposto dell’art. 19 del reg. (CE) n. 309/2005 e dell’art. 7, comma 2 del reg. (CE) n. 178/2002, il TAR ha condiviso l’approccio dell’amministrazione procedente e della Commissione di non estendere l’ordine di ritiro delle farine conformi, nonostante fossero state ottenute attraverso la miscelazione con quella contaminata, pur contestualmente ribadendo la necessità di procedere al ritiro di tutti i lotti non conformi e dei prodotti finiti realizzati mediante il loro utilizzo.
La ragionevolezza che, ad avviso del TAR, insiste in tale decisione risiede nel fatto che, a differenza dei prodotti finiti, la materia prima può essere oggetto di controlli approfonditi volti a verificarne l’assenza di contaminazione.
Ciò, anche alla luce del fatto, nello specifico caso, il contaminate ETO tende generalmente a distribuirsi in modo non omogeneo, rendendo quindi inattendibile un’analisi “a campione”.
Poiché la non conformità potrebbe essere determinata da una distribuzione non omogenea del contaminante nella farina di carrube, a seguito del confronto tra ATS e Regione era emersa la necessità di valutare una diversa metodologia di campionamento rispetto a quelle utilizzate sino a quel momento, che potesse maggiormente garantire la rappresentatività statistica.
Pertanto, la decisione di consentire l’utilizzo delle materie prime risultate conformi conferma, ad avviso del TAR, la razionalità e ponderazione della scelta, posto che il principio di precauzione impone non solo la proporzionalità delle misure preventive adottate, ma anche un loro riesame in un tempo ragionevole “a seconda della natura del rischio per la vita o per la salute individuato e del tipo di informazioni scientifiche necessarie per risolvere la situazione di incertezza scientifica e per realizzare una valutazione del rischio più esauriente” (art. 7, comma 2 del regolamento CE n. 178/2002).
Cosicché, continua il TAR, in un’ottica di bilanciamento tra principio di precauzione e proporzionalità delle misure, è corretto tenere in considerazione anche l’esigenza di minimizzare i danni economici all’impresa produttrice, consentendo la commercializzazione dei lotti conformi, ancorché prodotti con una miscela della farina contaminata, nonostante un’interpretazione rigorosa del regolamento (CE) n. 178/2002 ne avrebbe imposto il ritiro dal mercato.
Il provvedimento impugnato, pertanto, non è stato adottato sulla base di un approccio “puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici supposizioni non ancora accertate scientificamente”, ma sulla base dell’attuale stato delle conoscenze scientifiche.
Non vi è dubbio che rimanga fermo il disposto dell’art. 19 del reg. (CE) n. 178/2002, il quale sancisce che “se un operatore del settore alimentare ritiene o ha motivo di ritenere che un alimento da lui importato, prodotto, trasformato, lavorato o distribuito non sia conforme ai requisiti di sicurezza degli alimenti, e l’alimento non si trova più sotto il controllo immediato di tale operatore del settore alimentare, esso deve avviare immediatamente procedure per ritirarlo e informarne le autorità competenti. Se il prodotto può essere arrivato al consumatore, l’operatore informa i consumatori, in maniera efficace e accurata, del motivo del ritiro e, se necessario, richiama i prodotti già forniti ai consumatori quando altre misure siano insufficienti a conseguire un livello elevato di tutela della salute”.
Ma alla luce dell’esaminata sentenza del TAR Brescia – ancorché non favorevole per l’impresa ricorrente del caso specifico – si può ragionevolmente sostenere, più in generale, che l’applicazione di tale norma, pur rigorosa, non debba tradursi in una acritica disposizione di ritiro e richiamo di quantità e tipologie indefinite di prodotti dal commercio, ma va affrontata a mezzo di un’attività di valutazione del rischio che consenta un bilanciamento dei due principi di precauzione e di proporzionalità, per modo da pervenire ad approccio fattivo della gestione del rischio, connotata di maggiore razionalità ed idonea ad adeguatamente considerare la diversità dei singoli casi di non conformità di volta in volta esaminati.
Un simile approccio, se non superato da successive diverse interpretazioni in ambito giudiziale, appare anche idoneo a considerare di primaria rilevanza non solo l’intoccabile ed insuperabile principio di garanzia del più elevato livello di tutela della salute pubblica, ma anche l’esigenza di salvaguardare, per quanto e ove possibile, l’attività economica d’impresa, a mezzo della riduzione dei danni di carattere patrimoniale (e non solo) che le imprese coinvolte in simili vicende si trovano inevitabilmente ad affrontare e, più spesso, a subire.