avv. Valeria Pullini
Partendo da alcune controversie in tema di sicurezza alimentare, si è pervenuti ad un giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18 della L. 24 novembre 1981, n. 689, asseritamente in contrasto con la Costituzione nella parte in cui non prevede un termine per la durata del procedimento amministrativo relativo all’irrogazione delle sanzioni, ma solo un termine di prescrizione (5 anni).
Partiamo dalla fine.
La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata, ma ha formulato significative osservazioni sulla vigente disciplina normativa in tema di irrogazione di sanzioni amministrative, non escludendo la sussistenza dell’invocato contrasto con la Costituzione della predetta norma.
Il giudizio a quo
Nel giudizio principale, avanti al Tribunale di Venezia, era emersa la questione del lasso temporale, di oltre 4 anni, intercorso tra la data dell’accertamento dell’infrazione e la notificazione del provvedimento sanzionatorio.
Il Tribunale veneziano, pertanto, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della L. n. 689/1981 nella parte in cui non prevede un termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio mediante emissione dell’ordinanza-ingiunzione o di quella di archiviazione.
Il Giudice a quo osservava che l’assenza di un tale termine – che ricordava essere, invece, contemplato nel Codice della Strada, le cui violazioni sono parimenti soggette alla procedura amministrativa ex L. n. 689/1981 – contrasterebbe con:
- i principi di imparzialità e di buon andamento della PA, oltre che con i vincoli dell’ordinamento europeo e gli obblighi internazionali, poiché consentirebbe all’AC di emettere l’ordinanza-ingiunzione a distanza di troppi anni dalla contestazione dell’illecito e dagli scritti difensivi dell’asserito trasgressore;
- l’esigenza di assicurare la certezza dei diritti dei privati;
e comporterebbe, inoltre:
- la violazione del legittimo affidamento (quale canone dell’azione amministrativa e corollario dell’imparzialità) e del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa; nonché
- la violazione del principio di uguaglianza.
Il Comune di Venezia, parte del processo a quo, eccepiva l’inammissibilità della questione, tra l’altro, anche perché il Tribunale si è limitato a richiedere l’individuazione di un termine di decadenza, sollecitando così l’esercizio di un potere discrezionale riservato al legislatore.
Interveniva anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con l’Avvocatura dello Stato, la quale eccepiva parimenti l’inammissibilità della questione in relazione all’art. 117, comma 1, Cost. in quanto nel provvedimento di rimessione mancava l’indicazione delle norme interposte, nonché un qualsiasi percorso argomentativo a supporto della denunciata illegittimità costituzionale.
In altri termini, il Giudice a quo non avrebbe svolto alcuna considerazione sulle specifiche ragioni di contrasto tra il diritto nazionale e i parametri interposti, di cui nemmeno veniva argomentata la concreta portata precettiva.
Il giudizio avanti alla Corte costituzionale
La Corte ha ritenuto fondata l’eccezione di inammissibilità della questione sollevata dall’Avvocatura dello Stato in relazione all’art. 117, comma 1, Cost.
Parimenti fondata e, addirittura, assorbente è stata considerata l’eccezione di inammissibilità sollevata in primis dal Comune di Venezia e poi avallata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, in quanto la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice a quo postulava un’addizione, ossia un intervento integrativo, non obbligato, la cui scelta è affidata alla discrezionalità del legislatore.
La Corte, tuttavia, non si è limitata a tale lapidaria pronunzia, ma ha proceduto ad un’utile ricostruzione del contesto normativo di cui alla L. n. 689/1981, rilevando che, in effetti, l’unico termine assegnato all’Autorità decidente è quello di prescrizione quinquennale del diritto alla riscossione delle somme dovute per le violazioni amministrative, previsto dall’art. 28 della citata legge.
La Corte ha rammentato che, a differenza di quanto previsto dalla legge generale sulle sanzioni amministrative, per alcuni trattamenti sanzionatori regolati da fonti normative settoriali, come il decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) e il decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), il legislatore ha previsto sia un termine di prescrizione, sia un termine di decadenza, entro il quale deve essere emesso il provvedimento sanzionatorio.
Nel procedimento sanzionatorio con profili di specialità rispetto al procedimento amministrativo generale, la potestà sanzionatoria – che vede l’amministrazione direttamente contrapposta all’amministrato – rappresenta la reazione autoritativa alla violazione di un precetto con finalità di prevenzione, speciale e generale, e non lo svolgimento, da parte dell’autorità amministrativa, di un servizio pubblico (Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 15 luglio 2014, n. 15825). Perciò, l’esigenza di certezza, intesa come prevedibilità temporale, da parte dei consociati, delle conseguenze derivanti dall’esercizio dei pubblici poteri, assume una rilevanza del tutto particolare, proprio perché tale esercizio si sostanzia nella inflizione al trasgressore di svantaggi non immediatamente correlati alla soddisfazione dell’interesse pubblico, pregiudicato dalla infrazione.
Infatti, in materia di sanzioni amministrative, il principio di legalità non solo, come evidenziato dalla Corte, impone la predeterminazione ex lege di rigorosi criteri di:
– esercizio del potere,
– configurazione della norma di condotta la cui inosservanza è soggetta a sanzione,
– tipologia e misura della sanzione stessa e
– struttura di eventuali cause esimenti (sentenza n. 5 del 2021),
ma deve necessariamente modellare anche la formazione procedimentale del provvedimento afflittivo con specifico riguardo alla scansione cronologica dell’esercizio del potere.
Ciò in quanto la previsione di un preciso limite temporale per la irrogazione della sanzione costituisce un presupposto essenziale per il soddisfacimento dell’esigenza di certezza giuridica, in chiave di tutela dell’interesse soggettivo alla tempestiva definizione della propria situazione giuridica di fronte alla potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione, nonché di prevenzione generale e speciale.
Inoltre, la fissazione di un termine per la conclusione del procedimento non particolarmente distante dal momento dell’accertamento e della contestazione dell’illecito, consentendo all’incolpato di opporsi efficacemente al provvedimento sanzionatorio, garantisce un esercizio effettivo del diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost. ed è coerente con il principio di buon andamento ed imparzialità della PA di cui all’art. 97 Cost.
Mentre nel procedimento amministrativo il superamento del limite cronologico prefissato dall’art. 2 della L n. 241 del 1990 per l’esercizio da parte della PA delle proprie attribuzioni non incide ex se, in difetto di espressa previsione, sul potere (sentenze n. 176 del 2004, n. 262 del 1997), in quanto il fine della cura degli interessi pubblici perdura nonostante il decorso del termine, la predefinizione legislativa di un limite temporale per la emissione della ordinanza-ingiunzione, il cui inutile decorso produca la consumazione del potere stesso, risulta coessenziale ad un sistema sanzionatorio coerente con i parametri costituzionali sopra richiamati.
Non risulta adeguata la sola previsione del termine di prescrizione quinquennale del diritto alla riscossione delle somme dovute per le violazioni amministrative, previsto dall’art. 28 della legge n. 689 del 1981.
L’ampiezza di tale termine di 5 anni, lo rende inidoneo a garantire, di per sé solo, la certezza giuridica della posizione dell’incolpato e l’effettività del suo diritto di difesa, che richiedono contiguità temporale tra l’accertamento dell’illecito e l’applicazione della sanzione.
Tale omissione legislativa denunciata dal rimettente, ed evidentemente ritenuta sussistente dalla Corte, non è stata, però, ritenuta sanabile dalla Corte stessa, essendo essa oggetto di valutazione del legislatore.
Tuttavia, la Corte non ha mancato di sottolineare, altresì, come tale lacuna collochi l’AC in una posizione ingiustificatamente privilegiata che, nel contesto dell’attuale ordinamento giuridico, si configura come un anacronistico retaggio della supremazia speciale della pubblica amministrazione.
Per questo, nel dover dichiarare l’inammissibilità dell’esaminata questione, la Corte ha rappresentato come il protrarsi della denunziata lacuna normativa renda ineludibile un tempestivo intervento legislativo.
Peccato che l’epilogo sia stato quello sopra esposto, dato che, in sostanza, la Corte costituzionale ha affermato apertis verbis la sussistenza di una lacuna normativa riferibile all’art. 18 della L. n. 689/1981, oggettivamente ingiusta, anacronistica e incostituzionale con riferimento, in particolare, agli artt. 24 e 97 della Costituzione, ma ha ritenuto di non poter considerare ammissibile la questione proposta.
Forse un’ulteriore lacuna, questa volta nel modus procedendi, è rinvenibile nell’operato del Giudice a quo, il quale effettivamente ha mancato ogni riferimento, così come ogni argomentazione riferibili alle norme interposte, ossia le norme che assolvono la funzione di parametro del giudizio; interposte, quindi, fra la Costituzione e la norma la cui legittimità è oggetto della questione di costituzionalità.
Se così avesse operato, la Corte non avrebbe comunque potuto, verosimilmente, intervenire nella lacuna normativa attraverso un’attività integrativa, quale la previsione e l’inserimento nella norma di un termine decadenziale, ciò costituendo attività demandata al legislatore.
Ma le sarebbe stato consentito di svolgere un’attività decisionale di carattere interpretativo, potendo quindi pervenire alla conclusione di declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 18, L. n. 689/1981, per violazione – almeno – degli artt. 24 e 97 della Costituzione, nella parte in cui non prevede un termine di decadenza per la durata del procedimento amministrativo relativo all’irrogazione delle sanzioni.
E questo avrebbe condotto il legislatore ad intervenire di fatto in modo tempestivo per colmare tale lacuna; ciò che, invece, come possiamo immaginare, non avverrà in tempi brevi, semmai avverrà.