avv. Valeria Pullini
Ripercorriamo brevemente l’iter procedurale che ha condotto all’ordinanza qui considerata, avvalendoci dell’excursus operato dalla Cassazione civile a mezzo di tale provvedimento, reso ad esito di un ricorso presentato dal Gruppo Pam Spa avverso il Mipaaf in un caso avente ad oggetto la natura di un olio di oliva.
Con ordinanza ingiunzione n.141/2013 il Ministero per le Politiche Agricole Alimentari e Forestali ingiungeva al Gruppo Pam Spa e a ….OMISSIS….. il pagamento della sanzione di € 44.404,00 per aver detenuto per la vendita alcuni fusti di olio vergine di oliva, etichettati come olio extra vergine di oliva.
Con ricorso ai sensi dell’art.22 della Legge n.689/1891 il Gruppo Pam impugnava il predetto provvedimento lamentando il difetto dell’elemento soggettivo e la violazione dell’art.1 della Legge n.689/1981.
Con sentenza n.2364/2016 il Tribunale di Velletri accoglieva l’opposizione nella contumacia del Ministero.
Quest’ultimo interponeva appello e la Corte di Appello di Roma, con la sentenza n.6226/2017, poi impugnata, accoglieva l’impugnazione.
Proponevano ricorso per la Cassazione di detta decisione …….OMISSIS… e Gruppo Pam Spa, affidandosi a due motivi.
Nel presente contesto, per quanto qui interessa, ne verrà considerato solo uno, nella specie quello che ha condotto la Suprema Corte ad un giudizio di fondatezza della censura rappresentata.
In particolare, i ricorrenti hanno lamentato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art.360 n. 5 c.p.c., perché la Corte d’appello di Roma avrebbe ritenuto la sussistenza della loro responsabilità senza valutare la circostanza che dal verbale risultava che i contenitori di olio erano stati reperiti ancora chiusi.
Ad avviso dei ricorrenti, la Corte d’Appello avrebbe dovuto considerare che il fornitore aveva garantito per iscritto che detti fusti contenessero olio extra vergine di oliva e ravvisare, sulla base di tale elemento, la loro buona fede, con conseguente esenzione della responsabilità.
Sul punto, la Cassazione ha rilevato che, in effetti, dalla lettura della sentenza impugnata non risultava in alcun modo valutata la circostanza evidenziata dai ricorrenti, che pure era idonea ad incidere significativamente sul giudizio di sussistenza della responsabilità per la violazione amministrativa configurata.
La Suprema Corte ha, perciò, dato continuità al principio secondo cui l’errore sulla liceità del fatto è decisivo e giustifica l’esclusione della responsabilità quando abbia carattere di inevitabilità e dipenda da un elemento o un fatto estraneo all’autore dell’infrazione, con ciò richiamando alcuni propri precedenti: Cass. Sez.6-2, Ordinanza n.19759 del 02/10/2015; in senso conforme, Cass. Sez. L, Sentenza n.16320 del 12/07/2010, Rv.614381 e Cass. Sez. 1, Sentenza n.10477 del 08/05/2006.
- I principi della legislazione europea in tema di informazioni sugli alimenti al consumatore e le norme sulla responsabilità dell’OSA
Il primo “considerando” del Reg. (UE) n. 1169/2011 esordisce con il riferimento all’art. 169 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), il quale si preoccupa di “assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori”.
L’obiettivo fondamentale di tale regolamento, pertanto, ha ad oggetto, unitamente agli interessi generali del mercato interno (che si esplicano nella libera circolazione delle merci e nello svolgimento di pratiche commerciali leali), lo specifico “bene” dei consumatori, inteso quale possibilità di essere posti nella condizione di operare scelte adeguate e consapevoli nel proprio interesse non solo economico, ma anche sanitario, ambientale, sociale, etico (2° e 3° “considerando”).
Tale regolamento è, perciò, fondato su due rationes: da un lato, gli interessi del mercato dell’Unione, e dall’altro, l’esigenza di tutela del consumatore, attraverso la previsione di obblighi di informazione che consentano l’effettuazione delle suddette scelte consapevoli, essenziali al benessere, globalmente inteso, dei consumatori stessi.
A tale proposito, al 9° “considerando” è specificamente previsto che “il presente regolamento gioverà sia agli interessi del mercato interno, semplificando la normativa, garantendo la certezza giuridica e riducendo gli oneri amministrativi, sia al cittadino, imponendo un’etichettatura dei prodotti alimentari chiara, comprensibile e leggibile”.
Vediamo, quindi, che il principio del leale esercizio dell’attività commerciale, anche e soprattutto a tutela del consumatore, assurge a criterio dominante dell’intera disciplina normativa introdotta da tale regolamento, peraltro espressamente fondato sul Reg. (CE) n. 178/2002 che, come noto, nello stabilire i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, si prefigge di consentire ai consumatori scelte consapevoli, anche a mezzo della prevenzione di pratiche idonee ad indurre in errore.
Sul punto, di fondamentale importanza è l’articolo 7, che assume il non casuale titolo “Pratiche leali d’informazione”, il quale è stato inserito sub Capo III, relativo ai “Requisiti generali relativi all’informazione sugli alimenti e responsabilità degli operatori del settore alimentare”.
Sul principio della lealtà negli scambi commerciali è imperniato pressoché tutto il Reg. (UE) n. 1169/2011, tanto che, tra i requisiti generali di cui al sopra citato Capo III, emerge una significativa novità rispetto alla disciplina previgente (Direttiva 2000/13/CE), fornita dalla previsione dell’articolo 8, interamente dedicato alla responsabilità degli OSA in ordine alla correttezza delle informazioni sugli alimenti.
- La sentenza “Lidl” della Corte di Giustizia
Alla luce di tale pronuncia (procedimento C-315/05 – Lidl c. Comune di Arcole), è possibile prevedere a livello normativo nazionale ipotesi di responsabilità del mero distributore (inteso quale venditore di un prodotto alimentare preimballato, così come consegnatogli dal produttore) nel caso di constatata violazione di norme di etichettatura addebitabile al produttore (trattasi del caso relativo all’inesatta indicazione del titolo alcolometrico volumico indicato dal produttore, stabilito in un altro Stato membro, sull’etichetta di una bevanda alcoolica).
Ciò appariva possibile nel previgente sistema normativo, in primo luogo, in quanto la Direttiva 2000/13/CE “contrariamente ad altri atti comunitari che impongono obblighi in materia di etichettatura (…) non contiene alcuna norma ai fini della designazione dell’operatore che può essere considerato responsabile in caso di violazione di detto obbligo (…)”[1]; ma anche nel vigente sistema normativo in quanto, in secondo luogo, il diritto europeo non prevede alcun principio generale di responsabilità esclusiva del produttore; infine, perché “spetta agli operatori del settore alimentare garantire che nelle imprese da essi controllate gli alimenti soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione e verificare che tali disposizioni siano soddisfatte” (art. 17, Reg. CE n. 178/2002).
Tale obbligo di verifica comporta in capo al distributore la responsabilità (e, quindi, la passibilità di sanzione) per omesso controllo e commercializzazione del prodotto alimentare con etichettatura non conforme, in cooperazione colposa – ex art. 5, L. n. 689/1981 – con il produttore, che continuerà ad essere sanzionato per la violazione delle norme in materia di etichettatura.
In relazione alla ripartizione delle responsabilità in ambito amministrativo, il Reg. (UE) n. 1169/2011 ha introdotto un’espressa previsione di responsabilità correlata alle informazioni sugli alimenti, come sopra detto, attraverso la formulazione dell’art. 8 (Responsabilità), ove sono stati individuati i soggetti responsabili delle suddette informazioni e le condotte idonee ad evitare integrazioni d’illecito.
Sul punto, significativi sono, nel presente contesto, i paragrafi 3 e 5 del predetto art. 8:
- Gli operatori del settore alimentare che non influiscono sulle informazioni relative agli alimenti non forniscono alimenti di cui conoscono o presumono, in base alle informazioni in loro possesso in qualità di professionisti, la non conformità alla normativa in materia di informazioni sugli alimenti applicabile e ai requisiti delle pertinenti disposizioni nazionali.
- Fatti salvi i paragrafi da 2 a 4, gli operatori del settore alimentare, nell’ambito delle imprese che controllano, assicurano e verificano la conformità ai requisiti previsti dalla normativa in materia di informazioni sugli alimenti ed alle pertinenti disposizioni nazionali attinenti alle loro attività”.
Dal punto di vista strettamente amministrativo, la previsione di una tale norma semplifica l’opera d’individuazione del soggetto che, nello specifico caso considerato, emerga essere responsabile dell’accertata violazione, tenuto conto della natura di tale violazione e dell’ambito d’impresa nel quale essa risulta essere stata compiuta, secondo quanto stabilito, nei vari casi, dalla suddetta norma.
Già all’epoca dell’entrata in vigore di tale regolamento e, in particolare, della previsione del ridetto art. 8, era sorta la questione se tale norma potesse essere in grado di superare il principio enunciato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Lidl oppure se ne costituisse una conferma[2].
A tale proposito, la disamina era partita dal 21° “considerando” (seconda parte) del Reg. (UE) n. 1169/2011, il quale prevede che:
“Per evitare la frammentazione delle norme relative alla responsabilità degli operatori nel settore alimentare in relazione alle informazioni sugli alimenti è opportuno chiarire la responsabilità di tali operatori in questo ambito. Tale chiarimento dovrebbe essere conforme agli obblighi nei confronti del consumatore di cui all’art. 17 del reg. CE 178/2002”.
Non si tratta di una disciplina normativa ex novo, ma di un chiarimento su principi già desumibili dalla legislazione precedente quale, tra gli altri, il sopra citato art. 17 del Reg. (CE) n. 178/2002:
- Spetta agli operatori del settore alimentare e dei mangimi garantire che nelle imprese da essi controllate gli alimenti o i mangimi soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione e verificare che tali disposizioni siano soddisfatte.
In sostanza, la norma sembrerebbe voler distinguere la posizione del fabbricante o committente da quella di tutti gli altri soggetti della filiera, attribuendo a questi ultimi (ed in particolare ai distributori al consumo) esclusivamente la responsabilità per la commercializzazione di alimenti con etichetta irregolare conosciuta o conoscibile.
Il che sembrerebbe poter ricorrere nella sola ipotesi di errori estrinsecamente rilevabili (es. omissione di elementi obbligatori quali la denominazione di vendita, la data di scadenza, ecc.) e non in situazioni come quella portata all’attenzione della Corte di giustizia nel caso Lidl, ove la conoscibilità avrebbe presupposto controlli a campione sui contenuti degli alimenti.
Ma, l’art. 8, paragrafo 5, del Reg. (UE) n. 1169/2011, il quale, come sopra riportato, stabilisce che:
“5. Fatti salvi i paragrafi da 2 a 4, gli operatori del settore alimentare, nell’ambito delle imprese che controllano, assicurano e verificano la conformità ai requisiti previsti dalla normativa in materia di informazioni sugli alimenti ed alle pertinenti disposizioni nazionali attinenti alle loro attività”,
porta a ritenere che tale disposizione riprenda sostanzialmente la formula contenuta nel già citato art. 17, Reg. (CE) n. 178/2002 e sembrerebbe rimettere potenzialmente in discussione la struttura dei commi precedenti, anche alla luce del 21° “considerando”, sopra citato.
Se così fosse, pare legittimo ritenere che questo ulteriore comma recuperi quei doveri di verifica reciproca che impongono a tutti i soggetti di garantire il rispetto della legislazione alimentare attraverso controlli diretti o verifica sui controlli altrui.
La lettura complessiva della norma proposta potrebbe, quindi, portare ad affermare che, se certamente i distributori sono tenuti a non commercializzare prodotti di cui conoscono o dovrebbero ragionevolmente conoscere la non conformità alle regole in materia di etichettatura, non altrettanto certamente si può escludere la loro responsabilità per la vendita di prodotti i cui contenuti intrinseci non corrispondano alle dichiarazioni presenti in etichetta, quantomeno quando ciò possa generare un potenziale pericolo per la salute (es. presenza di allergeni totalmente omessi o non adeguatamente evidenziati) o una rilevante frode commerciale (es. dichiarazione “OGM FREE” per prodotti che presentino una rilevante presenza di ogm, ecc.).
Pertanto, sia per gli obblighi di autocontrollo imposti dal Reg. (CE) n. 852/2004, sia per la particolare posizione di garanzia attribuita all’art. 17 del Reg. (CE) n. 178/2002, sia per la stessa formulazione dell’art. 8, paragrafo 5, del Reg. (UE) n. 1169/2011, non pare possibile escludere a priori la corresponsabilità dei distributori, che, di conseguenza, dovrebbero mantenere gli attuali criteri e procedure di verifica imposti dalla legislazione alimentare dell’UE e dalle correlative norme sanzionatorie nazionali.
Conclusioni
L’ordinanza della Cassazione civile qui considerata non introduce, ad avviso della scrivente, un caso di superamento del principio di diritto espresso dalla Corte di Giustizia nella sentenza Lidl[3], ma pone l’attenzione su determinati elementi che potrebbero costituire un’ipotesi di esclusione della (cor)responsabilità del distributore nei casi in cui l’incongruenza tra quanto dichiarato in etichetta e la natura intrinseca di un alimento – fornitogli preimballato e destinato tal quale alla vendita al consumatore – non sia ascrivibile ad omissioni (nella specie, di verifica e controllo) del distributore stesso per errore inevitabile dovuto ad un fattore a questi estraneo.
Vi è da chiedersi, quindi, se le garanzie scritte fornite dal produttore circa la natura qualitativa del prodotto alimentare (coincidente con quanto riportato in etichettatura) siano idonee a condurre ad un giudizio di buona fede in capo al distributore, quale OSA ricevente, tale da escluderne la responsabilità ai sensi dell’art. 8, Reg. (UE) n. 1169/2011.
Se non si vuole partire dal presupposto che la Cassazione civile, con l’ordinanza qui considerata, abbia totalmente errato nella valutazione ed applicazione delle norme, inclusa la questione della gerarchia delle fonti, una risposta negativa a tale domanda non dovrebbe essere scontata ed immediata, specie se tali garanzie scritte si inseriscono in un contesto operativo ove le stesse non costituiscono gli unici elementi da considerare ai fini di un giudizio di inevitabilità/scusabilità dell’errore che ha dato luogo all’illecito ascritto al distributore.
Occorrerebbe, perciò, valutare caso per caso.
[1] Tratto dal testo della sentenza Lidl.
[2] V. RUBINO, La nuova disciplina della responsabilità in materia di etichettatura degli alimenti, in http://cafla.unipmn.it, 2012.
[3] Gli artt. 2, 3 e 12 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 20 marzo 2000, 2000/13/CE, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità, devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una normativa di uno Stato membro, come quella controversa nella causa principale, che prevede la possibilità per un operatore, stabilito in tale Stato membro, che distribuisce una bevanda alcolica destinata ad essere consegnata come tale, ai sensi dell’art. 1 di detta direttiva, e prodotta da un operatore stabilito in un altro Stato membro, di essere considerato responsabile di una violazione di detta normativa, constatata da una pubblica autorità, derivante dall’inesattezza del titolo alcolometrico volumico indicato dal produttore sull’etichetta di detto prodotto, e di subire conseguentemente una sanzione amministrativa pecuniaria, mentre esso si limita, nella sua qualità di semplice distributore, a commercializzare tale prodotto così come a lui consegnato da detto produttore.