avv. Valeria Pullini
La recente pronuncia dell’Antitrust riguardante la pasta Lidl[1] ha avuto una certa risonanza mediatica, non solo tra gli addetti al settore, non fosse altro che per la sanzione amministrativa pecuniaria irrogata a fronte dell’illecito amministrativo asseritamente commesso.
Non si tratta di pronuncia definitiva, essendovi la possibilità di impugnarla avanti al TAR Lazio (Roma) ai fini di una diversa valutazione – e, quindi, di un diverso esito – della vicenda.
Al di là degli aspetti procedurali e dell’attuale non definitività di tale pronuncia, si ritengono meritevoli di attenzione le considerazioni che hanno condotto l’AGCM ad un giudizio di ingannevolezza in base al codice del consumo.
La vicenda, come noto, ha ad oggetto la vendita in Italia, da parte di Lidl, di pasta di semola di grano duro a marchio “Italiamo” e “Combino”, in confezioni ove viene valorizzata l’italianità del prodotto sulla parte frontale delle stesse, in quanto trattasi di pasta prodotta in Italia.
Sulle confezioni è altresì presente l’indicazione dell’origine del grano duro (con menzione del luogo ove è stato coltivato) e del relativo Paese di molitura (con indicazione del Paese nel quale è stata ottenuta la semola di grano duro), in conformità al decreto interministeriale del 26 luglio 2017 in tema di “Indicazione dell’origine, in etichetta, del grano duro per paste di semola di grano duro”[2]
La pasta è, pertanto, “made in Italy”, così come origine italiana ha anche la semola di grano duro, ivi essendo stata effettuata la molitura del grano stesso.
La semola, prodotta in Italia, è costituita da miscele di grani duri di origine in parte UE e in parte esteri, come indicato sull’etichetta dei prodotti in esame: “Paese di coltivazione del grano: UE e non UE”.
Cosicché, l’unica origine non prettamente italiana – ma solo parzialmente tale, dato che la semola è stata ottenuta da una miscela di grani italiani ed esteri – è attribuibile non alla semola, quale ingrediente effettivo e primario della pasta, bensì al grano duro, ossia alla materia prima non più presente come tale nel prodotto finito, in quanto “trasformata”[3].
L’AGCM, che ad esito dell’istruttoria, ha irrogato alla Lidl una sanzione amministrativa pecuniaria di ben 1.000.000 di euro, ha ritenuto ingannevole l’enfasi data all’italianità del prodotto sulla parte frontale delle confezioni di pasta, non accompagnata dalle indicazioni di origine di grano e semola, pur presenti sulla confezione, ma in una parte diversa della stessa (quella laterale per la pasta a marchio “Italiamo” e sul retro per quella a marchio “Combino”) e di non immediato impatto visivo per il consumatore.
Al fine di avallare la scorrettezza della pratica commerciale, asseritamente posta in essere da Lidl, ai sensi degli artt. 21 e 22 del codice del consumo, e così giustificare l’irrogazione di una tale sanzione pecuniaria, l’Antitrust italiana, sentito anche il parere dell’AGCOM (in quanto gli elementi evocativi dell’italianità dei prodotti erano presenti anche sul sito web del produttore):
- ha categorizzato la specifica vicenda in un caso di Italian sounding;
- ha conferito primaria importanza ad una serie di indagini (studi demoscopici ed empirici, indagini campionarie) svolte nel tempo in ambito nazionale ed europeo al fine di evidenziare l’importanza attribuita dai consumatori italiani – superiore a quella della media dei consumatori europei – all’indicazione di origine delle materie prime dei prodotti alimentari[4];
- ha valorizzato l’assenza di (a suo dire) adeguate e contestuali indicazioni sull’origine anche estera del grano duro impiegato nella produzione della pasta.
Analizziamo, quindi, i tre punti sopra elencati, non già in funzione difensiva o di supporto alla posizione di Lidl, bensì in ragione di ciò che probabilmente dovremmo attenderci dall’imminente applicazione del regolamento di esecuzione (UE) n. 775/2018.
Il presente commento, infatti, non intende soffermarsi sullo specifico caso (anche perché, verosimilmente, ancora sub iudice), ma prendere spunto da questo per provare ad esaminare le problematiche applicative del predetto regolamento esecutivo, ancora presenti e possibilmente acuite a fronte della pubblicazione delle linee guida della Commissione UE[5], alle quali l’Antitrust pare aderire pienamente.
- Italian sounding?
Anzitutto, è bene chiarire che il caso Lidl – così come qualsiasi altro caso simile o identico – non rientra affatto in un’ipotesi di Italian sounding.
Quest’ultimo, come noto, è un fenomeno consistente nel fare apparire come “made in Italy” un prodotto che invece italiano non è, né per gli ingredienti utilizzati, né per il relativo luogo di produzione[6].
In altre parole, si tratta del fenomeno del cd. falso “made in Italy”.
Il caso specifico, al contrario, riguarda un prodotto realmente realizzato in Italia con semola di grano duro parimenti ottenuta in Italia.
Il fatto che il grano duro utilizzato per fare la semola sia costituito da una miscela di grani in parte italiani ed in parte esteri, nulla toglie all’italianità doganale dell’alimento finito, il quale può legittimamente vantare il “made in Italy”.
Altra e diversa cosa è enfatizzarlo in etichettatura e relegare in altra parte della stessa – in un campo visivo diverso e di non immediata accessibilità per il consumatore e con carattere minore rispetto a quello utilizzato per l’indicazione di origine dell’alimento – le ulteriori diciture di origine previste ex lege.
Ciò non integra ugualmente un caso di Italian sounding, bensì ed eventualmente una pratica d’informazione sleale (art. 7 del Reg. UE n. 1169/2011) ovvero una pratica commerciale scorretta, sanzionabile sotto il profilo amministrativo, ai sensi del D. Lgs. 231/2017 ovvero del codice del consumo, a seconda della norma che si assume essere stata violata (e, me lo si permetta, dell’autorità amministrativa che, per prima, è intervenuta nell’accertamento dell’illecito).
Su tale punto, in breve, si ricorda che il D. Lgs. 231/2017 reca la disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni di cui al regolamento (UE) n. 1169/2011 e, quindi, anche per la violazione dell’art. 7 e dell’art. 26, paragrafo 3 e del relativo regolamento esecutivo (per l’appunto, il Reg. UE n. 775/2018); ma viene fatta salva la disciplina sanzionatoria prevista dal D. Lgs. 206/2005 (codice del consumo).
Pertanto, ai fini dell’irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste nel predetto decreto è competente il Dipartimento dell’ICQRF, ma restano ferme le competenze spettanti all’AGCM ai sensi del D. Lgs. 145/2007 (attuazione dell’art. 14 della direttiva 2005/29/CE che modifica la direttiva 84/450/CEE sulla pubblicità ingannevole), e del ridetto codice del consumo.
Ora, è opportuno sottolineare che lo specifico caso della pasta Lidl è stato “giudicato” dall’AGCM in violazione del codice del consumo.
In particolare, la Lidl è stata sanzionata perché, a detta dell’AGCM, “la pratica commerciale appare suscettibile di ingannare il consumatore in merito alle caratteristiche della pasta a marchio “Italiamo” e “Combino”, inducendolo in errore circa l’origine italiana della materia prima, e quindi idonea ad alterarne le scelte commerciali, in violazione degli artt. 21 e 22 del Codice del Consumo”, considerato che (con evidenza qui aggiunta) “una corretta informazione sull’origine della materia prima rappresenta un elemento fondamentale per permettere al consumatore di effettuare una scelta d’acquisto consapevole sul mercato della pasta di semola di grano duro. Pertanto, al di là dell’imprescindibile riferimento agli obblighi informativi desumibili dalla normativa di settore e considerata l’importanza attribuita dai consumatori all’indicazione dell’origine della materia prima e del luogo di trasformazione”.
Ciò che quindi, è stato oggetto di valutazione negativa, è “l’incompletezza dell’informazione resa al primo contatto attraverso le confezioni delle paste”.
- Gli studi demoscopici, il dato normativo e gli orientamenti della Commissione europea
L’Antitrust, quindi, nelle proprie determinazioni ed a fini decisori, ha ritenuto di fondamentale importanza le indagini e gli studi demoscopici che, nel tempo, avrebbero rivelato come il consumatore italiano sia molto più interessato, rispetto agli altri consumatori europei, a conoscere non già e non solo l’origine dell’alimento e/o del suo ingrediente primario, quanto, in primis, quella della relativa materia.
Il che andrebbe a contrastare con il dato normativo nel frattempo introdotto ad opera del legislatore europeo il quale, come è verosimile sia, avrà tenuto conto, nella relativa formulazione, anche di tali studi ed avrà compiuto, si immagina, una sintesi delle aspettative del consumatore medio dell’Unione europea, non di quello di ciascuno Stato membro, dato che trattasi, altresì, di normativa direttamente applicabile in ogni Stato UE, senza necessità, quindi, di norme nazionali di recepimento.
Il contrasto è dato, ictu oculi, dal fatto che il Reg. (UE) n. 1169/2011 e, quindi, anche il Reg. di esecuzione (UE) n. 775/2018, quando trattano l’origine dell’alimento e l’origine dell’ingrediente primario si riferiscono, apertis verbis, al concetto di origine doganale secondo il codice doganale dell’Unione e, in particolare, alle norme di individuazione dell’origine non preferenziale delle merci.
Le quali stabiliscono che, quando alla produzione delle merci contribuiscono due o più Paesi o territori, le merci stesse sono considerate originarie del Paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata, effettuata presso un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione (art. 60, paragrafo 2, del Reg. UE n. 952/2013 – codice doganale dell’Unione)
I criteri di individuazione della lavorazione sostanziale sono molteplici e tra essi troviamo, ad esempio, il cambio della voce doganale, ossia, in sintesi, la variazione del codice NC del prodotto (o ingrediente) finito rispetto a quello della materia prima di partenza.
Quindi, ai fini dell’individuazione dell’origine, sia che si tratti dell’alimento finito sia che si consideri il suo ingrediente primario, più che agli esiti delle indagini demoscopiche (i quali possono variare a seconda delle latitudini, dei tempi e delle “mode”), si dovrebbe fare riferimento al dato normativo esistente e, nello specifico caso, alla regola dell’“ultima trasformazione sostanziale”.
Pertanto, circoscrivendo la questione all’ingrediente primario, vedremmo che le modalità di individuazione della relativa origine non cambiano rispetto a quelle ex lege previste per il prodotto alimentare finito.
Cosicché, se l’alimento finito può vantare il “made in” doganale in relazione ad un determinato Paese, in quanto ivi è stato trasformato subendo l’ultima lavorazione sostanziale, anche il relativo ingrediente primario dovrebbe poter vantare la medesima indicazione di origine doganale, senza avere riguardo al luogo di origine della relativa materia prima, qualora si tratti a sua volta di ingrediente trasformato e/o composto.
- La definizione di ingrediente primario ai sensi del Reg. (UE) n. 1169/2011 e la relativa individuazione secondo l’orientamento della Commissione UE
Ancora una volta ancorandoci al caso “pasta Lidl”, nelle proprie argomentazioni difensive, la Lidl ha sostenuto – anche in previsione dell’imminente applicazione del Reg. di esecuzione (UE) n. 775/2018 – che “sulla base del Reg. 1169/2011 e del Reg. attuativo 775/2018, (il professionista) non sarebbe tenuto a fornire alcuna indicazione sul luogo di origine del grano duro, essendo sia l’ingrediente primario della pasta (la semola) sia il prodotto alimentare (pasta) prodotti in Italia”.
Sennonché l’Antitrust non ha ritenuto condivisibile l’assunto, in quanto (con evidenza qui aggiunta) “La nozione di ingrediente primario, di cui all’art. 2, comma 2, lettera q), Regolamento n. 1169/2011, rinvia a due criteri, uno di tipo quantitativo (è “primario” l’ingrediente che rappresenta più del 50% dell’alimento) ed uno qualitativo (l’ingrediente generalmente associato alla denominazione dell’alimento nella percezione dei consumatori). Nel caso specifico, l’ingrediente generalmente associato alla denominazione della pasta nella percezione dei consumatori è il grano duro, che rappresenta la componente fondamentale del prodotto pasta”.
Pertanto, quando occorre fare riferimento al “criterio qualitativo” per l’individuazione dell’ingrediente primario, l’AGCM ritiene che, in certi casi, l’ingrediente che il consumatore generalmente associa alla denominazione dell’alimento non sia uno degli ingredienti dell’alimento (nello specifico, la semola rispetto alla pasta), bensì la materia prima utilizzata per produrre tale ingrediente (ossia, il grano duro rispetto alla semola).
Se, da un lato e come detto, un tale assunto risulta contrastare con il dato normativo (l’art. 26, paragrafo 3 del Reg. UE n. 1169/2011 ed il Reg. di esecuzione UE n. 775/2018 parlano di “ingrediente” e/o “ingredienti” dell’alimento, non delle relative materie prime), dall’altro la posizione dell’AGCM pare essere avallata dagli orientamenti assunti dalla Commissione UE nelle summenzionate linee guida relative all’applicazione del ridetto art. 26, paragrafo 3, di recentissima pubblicazione.
In particolare, la Commissione ha chiarito (si fa per dire) che, nel fornire informazioni riguardo all’ingrediente o agli ingredienti primari di un alimento, gli OSA dovrebbero tenere conto di vari elementi. Nella specie, oltre alla composizione quantitativa dell’alimento, essi devono considerare attentamente:
– la sua natura e le sue caratteristiche specifiche, nonché
– la presentazione complessiva dell’etichetta.
E devono, inoltre, tenere conto:
– della percezione e delle aspettative dei consumatori riguardo alle informazioni fornite sull’alimento in questione.
Gli OSA, quindi, dovrebbero valutare – ovviamente sotto la propria responsabilità – se l’indicazione dell’origine di un determinato ingrediente abbia probabilità di influenzare in misura sostanziale le decisioni di acquisto dei consumatori e se l’assenza di tale indicazione possa indurre in errore i consumatori.
Il tutto, avuto particolare riguardo all’art. 7 del Reg. 1169, relativo alle pratiche leali d’informazione, in quanto le informazioni fornite riguardo all’indicazione dell’origine dell’ingrediente primario non devono indurre in errore e in ogni caso non dovrebbero eludere le disposizioni e gli obiettivi di cui all’art. 26, paragrafo 3, del regolamento medesimo.
Inoltre, laddove sia necessario fornire informazioni sull’origine dell’ingrediente primario e tale ingrediente sia un ingrediente composto, la Commissione, in linea con l’orientamento già intrapreso nell’ambito del lavori preparatori alle predette linee guida, ha ufficializzato la propria posizione, assumendo che gli OSA devono fornire il livello di informazioni più adeguato all’alimento in questione.
In tale contesto, essi dovrebbero prendere in considerazione:
– la natura specifica dell’alimento in questione,
– la sua composizione e il suo processo di fabbricazione,
– l’interpretazione, le aspettative e l’interesse dei consumatori quanto all’indicazione dell’origine dell’ingrediente primario contenuto nell’ingrediente composto (luogo da cui proviene l’ingrediente primario – materia prima – contenuto nell’ingrediente composto, ad esempio il luogo di raccolta o di allevamento), nonché
– il modo in cui gli ingredienti costitutivi dell’ingrediente composto sono indicati nell’elenco degli ingredienti.
La ratio seguita dalla Commissione è fornire al consumatore l’informazione di cui ha realmente bisogno.
In questo senso, il luogo di lavorazione della semola (molitura) potrebbe non essere un dato di particolare rilevanza, mentre il consumatore medio è più portato a prestare attenzione al luogo di origine del grano.
Ma, come rilevato, la sola definizione giuridica di origine rinvenibile nelle norme in esame è quella doganale, che, nel caso di ingredienti trasformati, rinvia al luogo dell’ultima trasformazione sostanziale economicamente giustificata.
Non si rinvengono, invece, passaggi espliciti sulla possibilità di intendere per origine dell’ingrediente primario l’origine della materia prima impiegata per costituirlo, così come indicato dalla Commissione UE e così come vorrebbe anche l’AGCM.
Conclusioni
Alla luce di quanto emerso, siamo di fronte ad un vero e proprio scontro fra due principi: il principio di legalità/tassatività, che condurrebbe ad attenersi fedelmente alla norma, la quale parla di origine dell’ingrediente primario, non di origine dell’ingrediente/materia prima dell’ingrediente primario; e quello dell’interpretazione in base al cd. “effetto utile” del diritto dell’UE.
Se il principio da applicare, qui, fosse il secondo, il problema pratico – ricadente in capo all’OSA, anche in punto di responsabilità – è quello di individuare tale “effetto utile”, da intendersi come la determinazione dell’informazione di cui il consumatore ha di fatto bisogno.
Ma affrontare una tale questione significa farsi carico di un problema ulteriore e primario: per capire cosa vuole il consumatore, occorre anzitutto capire chi sia il consumatore a cui ci si rivolge.
Sul punto, come noto, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha creato, anni or sono, la figura del consumatore medio, ossia, in sintesi, una persona fisica normalmente informata e ragionevolmente attenta ed avveduta, tenuto conto di fattori sociali, culturali, economici e linguistici, fra i quali particolare rilievo va riservato al “contesto complessivo” in cui il consumatore si trova ad agire.
Pertanto, si può affermare senza rischio di smentita, che il consumatore medio italiano abbia interessi e bisogni differenti dal consumatore medio tedesco o francese o spagnolo, ecc. e viceversa; perché se anche l’Unione europea, come la locuzione stessa ci dice, è un’organizzazione politica ed economica di Stati con un proprio ordinamento giuridico, è pur vero che ciascuno di tali Stati presenta connotazioni culturali, sociali, economiche e linguistiche storicamente diverse l’uno dall’altro.
Ed allora verrebbe da pensare che, nella redazione delle etichette dei propri prodotti, quando sia il momento di fornire informazioni sull’origine dell’ingrediente primario e sia necessario, anzitutto, determinare quale sia l’ingrediente primario di quel determinato prodotto alimentare, l’OSA sia costantemente tenuto a considerare studi ed indagini demoscopiche ed empiriche (che, come si è detto, per loro natura sono mutevoli in funzione del contesto – spaziale e temporale – di riferimento) per capire quali siano gli interessi e le necessità d’informazione del consumatore medio al quale i propri alimenti sono rivolti.
Un’impresa che oserei definire folle, più che difficile da perseguire, in particolare considerando che un numero considerevole di alimenti preimballati, circolanti nel mercato intracomunitario, presentano un’etichettatura multilingue in quanto destinati a diversi mercati di altrettanti Stati UE, ciascuno con il proprio gruppo di “consumatori medi” di riferimento, portatori di interessi e bisogni informativi – quanto meno teoricamente – differenti.
Tenuto conto che l’obbligo di indicazione dell’origine dell’ingrediente primario di un prodotto alimentare sorge solo quando sia indicata l’origine di quest’ultimo e tale origine sia diversa dall’origine del primo, una soluzione tranchant – finalizzata ad archiviare ab origine ogni tipo di questione – potrebbe essere quella di evitare qualsiasi riferimento (con parole, immagini, simboli, ecc.) al “made in” in relazione all’alimento.
Ma una tale “soluzione”, alla quale purtroppo vari operatori si stanno ancorando, avendo già eliminato ogni indicazione di origine dalle proprie etichette, non può ritenersi eticamente corretta, in quanto trattasi del cd. male minore, che in realtà porta molto nocumento alla libertà di iniziativa economica privata.
In attesa che tali (ed altre) questioni vengano portate sul tavolo della Corte di Giustizia (impossibile pensare che non si approdi, prima o poi, in tale sede), si confida sulla buona volontà dei nostri Ministeri e/o associazioni di categoria, affinché vogliano redigere ulteriori linee esplicative sull’applicazione del regolamento esecutivo (UE) n. 775/2018, in grado di facilitare l’operatività – quanto meno – degli OSA italiani, evitando che essi siano costretti – per la farraginosità e, a tratti, l’incomprensibilità o impraticabilità di alcuni orientamenti forniti a livello UE – a rinunciare alle proprie legittime iniziative imprenditoriali.
[1] Provvedimento dell’AGCM n. 28059 del 20.12.2019 – “PS11387 – PASTA LIDL – ITALIAN SOUNDING”, rilevabile nel Bollettino n. 3 del 20.1.2020
[2] Tale decreto è destinato a cessare d’efficacia il 31 marzo 2020, decorrendo l’applicabilità del regolamento di esecuzione (UE) n. 775/2018, prevalente sul primo, dal prossimo 1° aprile.
[3] Nell’ambito dei lavori preparatori alla stesura delle linee guida della Commissione UE – pubblicate in G.U.U.E. del 31.1.2020 con Comunicazione 2020/C 32/01 sull’applicazione delle disposizioni dell’articolo 26, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 1169/2011 – era stata considerata la questione relativa alla definizione di ingrediente primario per i prodotti a singolo ingrediente, ritenendo possibile che il prodotto finale sia un prodotto a singolo ingrediente trasformato, dove l’ultima trasformazione sostanziale si sia verificata in luoghi diversi rispetto all’origine della materia prima.
In tale occasione sono stati riportati alcuni esempi, non più ripresi nella stesura delle linee guida ufficiali (ove è rimasta, tuttavia, la previsione dell’obbligo di indicare la diversa origine della materia prima nel caso di indicazione di origine di un alimento monoingrediente trasformato altrove), ma che si ritengono, comunque, anche oggi valevoli a rendere comprensibile la previsione di cui si tratta:
- zucchero proveniente da Paesi terzi e trasformato in un Paese dell’UE tramite raffinazione.
Per lo zucchero non è evidente la natura di prodotto “trasformato”, si tratta comunque di un prodotto grezzo che viene “trattato”, e non necessariamente “trasformato”, in un Paese diverso da quello di coltivazione e raccolta della materia prima. Si tratta quindi di un’ultima lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata che si conclude con la produzione di un prodotto nuovo. La Commissione aveva proposto altri esempi, quali la farina o la semola.
La precisazione fatta per lo zucchero, vale anche per la semola e per la farina che, pur essendo prodotti “non trasformati” ai sensi dell’art. 2, paragrafo 1 del Reg. (CE) n. 852/2004, sono frutto però dell’ultima lavorazione sostanziale del grano che genera un prodotto nuovo, anche individuato con un codice NC diverso da quello del monoingrediente grano.
[4] Food safety in the EU, Special Eurobarometer Wave EB91.3, Giugno 2019; “Study on the mandatory indication of country of origin or place of provenance of unprocessed foods, single ingredient products and ingredients that represent more than 50% of a food”, prepared by Food Chain Evaluation Consortium for the Directorate General for Health and Food safety, Final Report, 10/9/2014. Su tale studio è basata la “Relazione della Commissione al Parlamento Europeo e al Consiglio sull’indicazione obbligatoria del paese d’origine o del luogo di provenienza degli alimenti non trasformati, dei prodotti a base di un unico ingrediente e degli ingredienti che rappresentano più del 50% di un alimento” del 20/5/2015, COM(2015) 204 final; Ismea, Indagine sull’etichettatura di origine dei prodotti agro-alimentari, Gennaio 2019; Contò et al., Consumers perception of traditional sustainable food: an exploratory study on pasta made from native ancient durum wheat varieties, Rivista di Economia Agraria, Anno LXXI, n. 1 (Supplemento), 2016, e altri.
[5] V. Comunicazione della Commissione (2020/C 32/01) sull’applicazione delle disposizioni dell’articolo 26, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 1169/2011, in G.U.U.E. del 31.1.2020.
[6] Casi, notissimi, di Italian sounding sono il Parmesan, il Cambozola, il Parma Ham e molti altri, a prescindere dal fatto che gli “originali” abbiano o meno ottenuto adeguata protezione in sede europea e globale.